X Domenica Tempo Ordinario                   9.6.2013

 

I Libro dei Re 17,17-24

Lettera ai Galati 1,11-19

Vangelo secondo Luca 7,11-17

 

In quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre. Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo». Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante.

 

La Parola che salva

 

 

La pagina del Vangelo che viene proclamata nella liturgia di questa domenica mette in risalto la compassione di Gesù, una compassione che l’evangelista Luca presenta con un termine (qui tradotto con “grande compassione”) allora normalmente usato per indicare l’amore viscerale di una mamma verso il proprio figlio – che poi è l’amore di quella vedova che porta al cimitero il proprio unico figlio.

Gesù s’imbatte per caso (sembra) in quel funerale. Nessuno gli chiede niente. Lui stesso prende l’iniziativa: si avvicina alla madre, pienamente coinvolto nel suo dolore, la consola e poi ridona la vita al figlio.

Due grandi compassioni che si incontrano.

È un atto gratuito.

Un atto che ci presenta subito una grande lezione. L’uomo che soffre non ha bisogno di “piegare” Dio, di convincerlo ad ascoltarlo… La sua sofferenza è già un documento di credito presso Dio. Di questa semplice realtà, forse più frequentemente di quanto immaginiamo, perdiamo la memoria. È per questa ragione che la nostra fede in Dio è sempre così instabile.

Ma c’è un secondo elemento da aggiungere, ed è piuttosto notevole.

La prima lettura ci racconta del profeta Elia che ridona vita al figlio della vedova che lo stava ospitando. Notiamo che il profeta chiede a Dio di restituire la vita al ragazzo. Egli è semplicemente un mediatore. Gesù, invece, non prega il Padre; lui stesso ridà vita con un ordine: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Con ciò, si rivela a coloro che lo seguono come “il Figlio di Dio che dà la vita”.

La Parola di Gesù è dunque una Parola che salva. È quanto intuiscono ed esprimono gli astanti, i quali esclamano: «Dio ha visitato il suo popolo».

Ed ecco – in queste parole – un altro elemento di riflessione. Quante volte ci immaginiamo un Dio che se ne sta abbastanza distante dal nostro mondo, quasi non volesse “sporcarsi le mani” con le miserie della nostra umanità. Invece, questa pagina del Vangelo ci dice un paio di cose, essenziali e decisive per la nostra fede.

La prima: Dio è sempre coinvolto con le vicende in cui siamo noi stessi coinvolti (non è un gioco di parole!), sino a ridere con noi per la nostra stessa gioia, e sino a piangere con noi con le lacrime della nostra stessa sofferenza.

Che cosa si aspetta da noi se non che facciamo altrettanto nei confronti del nostro prossimo?

La seconda: la sua Parola è essenzialmente diversa dalle nostre parole. È una Parola che ha assunto la nostra umanità per essere, in questa umanità, principio di vita – e di vita eterna. Gesù è la Parola che salva. Ora, la nostra fede deve radicarsi e nutrirsi di questa Parola. Altrimenti, da instabile rischia di rinsecchire e di perdersi.

Anche oggi, dunque, ascoltiamo quella Parola che ancora ci ordina: «Cristiano, dico a te, àlzati!».

 

 

P. Carlo