XXII
Domenica Tempo Ordinario 8.9.2013
Sapienza 9,13-18
Lettera a Filemone 9-10,12-17
Vangelo secondo Luca
14,25-33
In quel tempo, una folla numerosa andava
con lui. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di
quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e
perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non
porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
Chi di voi, volendo costruire una torre,
non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a
termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il
lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha
iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale
re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può
affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no,
mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.
Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.
Le esigenze della sequela
La prima lettura di questa domenica si apre con
un doppio interrogativo: «Quale uomo può
conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?». La
risposta, evidentemente, è negativa. Solo la Sapienza di Dio può venire
incontro all’incapacità dell’uomo – una Sapienza che non consiste tanto in una
qualche misteriosa rivelazione, bensì si identifica nel Verbo eterno del Padre,
venuto per manifestarci il vero volto di Dio Padre e le esigenze del suo regno: Gesù, il nostro unico Maestro.
Queste esigenze, secondo la pagina evangelica
odierna, sono molto dure: essere disposti a rinunciare ai propri averi, a prendere
la propria croce e a mettersi al suo seguito.
Anzitutto, Gesù dice di «portare la propria croce».
L’unica croce
che salva è la sua. Perciò, prendere ciascuno la propria croce non può voler
dire altro che essere disposti ad accogliere e fare nostra la sua, essere
disposti a vivere come lui stesso ha
vissuto, guidati e sostenuti dal suo Spirito d’amore.
Gesù ha accettato di esservi inchiodato sopra, nudo, senza protezione dai nemici, alla mercé del popolo che lo insultava e lo beffeggiava, privo di libertà, rifiutato da quell’umanità che stava amando sino al dono supremo di sé. Povero, dunque, e della povertà più radicale. Non si apparteneva più. Apparteneva soltanto alla sofferenza più disumana e alla morte.
Chi lo ha spinto ad accettare un simile passo?
L’amore verso il Padre, l’amore verso ciascuno di noi, suo fratello. Con la
croce Gesù rinuncia a tutto per donarsi a noi con un amore impensabile, infinito.
Ecco dunque il significato di quel «portare la propria croce»: condividere la sua capacità di dono, consapevoli che solo un totale amore di preferenza può spingerci ad accettare una simile condizione. Questo vuole Dio da noi.
Nella seconda parte del vangelo odierno ascoltiamo due parabole.
Costruire una torre e muovere in guerra erano due imprese “serie”. Non si poteva certo avventurarsi nell’impresa e poi tirarsi indietro a piacimento. Gesù usa queste immagini per sollecitare ad essere seri.
Come dire: non è possibile vivere la sequela come se fosse un optional, finché ne siamo capaci, o fin che ne abbiamo voglia. Non è un gioco per gente superficiale, presuntuosa o velleitaria.
perciò, devi calcolare e riflettere. Calcolare che cosa? Che, se vuoi farcela, devi mettere in atto una strategia vincente, devi fare la tua parte, scegliendo di costruire la tua vita secondo la povertà stessa di Gesù.
Calcoli “strani”, questi; sicuramente non valgono per alcuna azienda o per alcuna iniziativa umana. Ma hanno un valore effettivo e vincente sicuramente per chi vuole “impossessarsi” del regno di Dio senza dimenticare il monito di Gesù: «Chi pone mano all’aratro e poi si volge indietro, non è adatto per il regno di Dio».
P. Carlo