OFS Ferrara – Incontro del 21.11.2010 – San Maurelio

 

Appunti di p. Carlo Dallari

 

 

 

Il Pane va chiesto

 

 

 

Con la domanda «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» non chiediamo soltanto la semplice soddisfazione di un’esigenza materiale primaria, il pane e quanto altro occorra per un’esistenza dignitosa: salute, casa, lavoro, ma anche quei valori autentici che ci consentono di vivere con dignità. Siamo uomini e donne ricercatori di gioia, di verità, del senso della vita… anche questo è necessario al nostro vivere quotidiano – soprattutto nelle prove e nei momenti difficili! – e, dunque, anche questo chiediamo con l’invocazione «Dacci oggi».

 

La tentazione del pane!

 

Chiediamo tutto ciò, perché lo riteniamo un bene per ogni uomo e per tutti gli uomini; e lo chiediamo al Padre, fonte della vita e di ogni bene.

Lo chiediamo, perché abbiamo fiducia in lui, Padre provvidente, consapevoli che, senza il Pane che egli vuole donarci in abbondanza, la nostra vita si appiattirebbe su un vuoto materialismo – e noi morremmo di inedia.

 

Lo chiediamo, perché vogliamo rovesciare la logica della tentazione cui fu sottoposto Gesù, all’inizio della sua missione pubblica. «Fa’ che queste pietre diventino pane», gli aveva intimato il Tentatore per indurlo a usare dei suoi «poteri divini» per sfamare se stesso e – in prospettiva della missione – per sfamare le folle che lo avrebbero seguito. Come gli dicesse: «Vuoi che tutti ti riconoscano come il Cristo atteso? Allora, cerca di essere credibile di fronte alla gente che viene a te e ti sottopone fiduciosa le proprie necessità e i propri problemi, gente che non ha altra attesa che tu li risolva. Dài loro prova della tua potenza, fai vedere che sei il Figlio di Dio. Sii chiaro nei tuoi messaggi e nei tuoi gesti per dimostrare chi sei. Se sei il Figlio di Dio, usa la tua onnipotenza».

Il tentatore cercava sottilmente di instillare in Gesù una convinzione comune (oggi, come allora): non c’è nulla che contraddica maggiormente la fede in Dio buono e la fede in un redentore degli uomini che la fame dell’umanità. Perciò, chi nutre la pretesa di essere un «salvatore», deve anzitutto dare il pane e mettere fine alla fame di ogni uomo. Potremmo, dunque, tradurre così il suo invito: «Tu, Cristo, devi debellare la fame nel mondo. Ne hai il potere: fai il miracolo; altrimenti, smetti di importunarci con i tuoi discorsi».

È una sfida lanciata a Cristo; è la sfida che si ripete anche nel tempo della Chiesa: «Se non sei utile, se non appaghi i nostri bisogni, sparisci!».

Gesù non cede e risponde al tentatore: «Sta scritto: non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio». Se avesse capitolato, avrebbe compiuto un atto arbitrario nei confronti del Padre. Perciò non avrebbe potuto essere il nostro Salvatore, non avrebbe potuto sfamarci con il Pane del suo corpo dato per noi.

 

La sfida gettata a Cristo e ai suoi discepoli rivela una logica idolatrica, pagana. Essa va a colpire, prima di tutto, la nostra immagine di Dio e, conseguentemente, il nostro rapporto con lui.

Chi accetta quella mentalità mette alla prova Dio stesso, lo tenta, lo provoca a mostrarsi «dio che risolve i nostri problemi». «Se non usa l’onnipotenza, che dio è? Se non si mostra provvidente, che ci sta a fare? Se non ci toglie dai guai, se non cancella il nostro male, che bontà è la sua? Se non è utile per i nostri interessi, non abbiamo tempo da perdere con lui». Ecco cosa pensa! Un Dio costretto al miracolo da una fede che non è più fede, ma delirio di onnipotenza, presunzione di piegarlo a fare la nostra volontà; presunzione di uomini che hanno fatto la scelta di essere dio di se stessi; presunzione di uomini che, dopo aver sperimentato l’ubriacatura di essere diventati dio di sé, pretendono che il loro Creatore intervenga a mettere le pezze a ciò che sistematicamente hanno rovinato. In fondo, presunzione di uomini che si credono Giove supremo e vogliono comandare a bacchetta il Creatore, come fosse un «Dio minore».

Chi approva quella mentalità stacca la propria esistenza dal suo naturale riferimento a Dio: da figlio si fa padrone e, da padrone, sfruttatore delle risorse della terra, sfruttatore dei suoi stessi fratelli. C’è una trappola mortale dietro all’invito: «Fa’ che queste pietre diventino pane». Gesù l’ha smascherata e respinta, e ci ha insegnato a rivolgere al Padre una preghiera che va in senso contrario: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano». Come Cristo, anche noi non vogliamo ridurre l’umano problema del pane a una «faccenda privata», sa sbrigarsi secondo i nostri interessi. Siamo consapevoli che, qualora arrivassimo a impossessarci di questo dono di Dio, da «nostro» lo ridurremmo a «mio» – ma ciò significherebbe corromperlo e trasformarlo in pietra.

 

L’invocazione «Dacci oggi» raccoglie veramente il grido di tutti gli affamati della Terra, il nostro e quello di ogni uomo che necessariamente deve custodire e sostenere la vita che il Creatore gli ha donato. È la preghiera che si fa voce di ogni uomo oppresso che non ha pane e dignità. Questa è la preghiera che va dritta al cuore del Padre, non l’urlo: «Trasforma queste pietre in pane!»

«Dacci oggi», perché oggi ne abbiamo bisogno. Ma, anche se non ne avessimo bisogno, te lo chiediamo lo stesso: perché dovremmo rivolgerci a Te soltanto nella necessità? O perché dovremmo chiedere soltanto quando noi stessi siamo nel bisogno, dimenticando tanti nostri fratelli? Te lo chiediamo con fiducia, poiché, se vogliamo giungere all’incontro con te – come il profeta Elia – è necessario che mangiamo per non venir meno lungo la via.

«Dacci oggi», dunque, secondo il tuo piano provvidente; «Dacci oggi», poiché ci riconosciamo tuoi collaboratori su una Terra che tu hai fatto per noi, Terra che ha nel «sostenerci e governarci» (san Francesco) il suo senso ultimo.

«Dacci oggi», a noi tutti, perché nella fame siamo tutti eguali, siamo tutti figli. E tu, tra i tuoi figli non fai differenza di persone.

 

Pane di vita eterna

 

Oltre al pane che nutre il corpo chiediamo anche tutto ciò di cui il pane è simbolo, specialmente quel «pane che sazia per la vita eterna».

Gesù aveva risposto al Tentatore: «Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio»; poi sfamò le folle che lo avevano seguito per ascoltare quella Parola. Perché? Esse avevano scelto l’ascolto, cioè la «cosa migliore» di cui parla Gesù (cf. Lc 10,42); proprio per aver operato questa scelta, Gesù diede loro in sovrappiù (cf. Lc 12,31) quel pane che permetteva loro di non venir meno per via.

La fame di cui il nostro corpo avverte i crampi sembra dunque rimandare a una fame più radicale: abbiamo fame di vita eterna. Ora, il cibo che noi cerchiamo e che può veramente sfamarci è la vera manna che viene dal cielo, cioè la Parola uscita dal seno del Padre: Gesù stesso, il Figlio di Dio che si fa Pane per noi. «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51).

Questo è il Pane di vita eterna che chiediamo al Padre, consapevoli che soltanto lui può donarlo. E il Padre ha da sempre ascoltato la nostra preghiera: ci ha inviato il Figlio suo per prendere su di sé la nostra fame, per entrare in essa e per redimerla. Cosa significa ciò?

In effetti, Gesù non ci ha liberato dalla fame, come non ci ha guariti dalla malattia, o liberati dalla morte, pur avendo sfamato le folle, guarito ogni sorte di malattia, risuscitato dei morti. Non ha dunque cancellato la fame; ha fatto di più: l’ha redenta, riconducendola al suo senso originale, quello che aveva prima che l’uomo la corrompesse con il peccato. La fame corrotta, quella che porta alla disperazione e alla morte, è la fame che impazza in tante regioni della Terra, è quella che toglie la forza di urlare a tanti innocenti, di cui il mondo opulento nega persino l’esistenza. È la fame indotta dalla disuguaglianza, dall’insano sfruttamento delle risorse, dalle guerre combattute per l’accaparramento, dalla mancanza di pietà oltre che di giustizia, dalla chiusura del cuore di fronte al pianto dei bambini… È la fame frutto del peccato, quella che Francesco definirebbe «cosa amara», come la morte di chi non fa penitenza.

Gesù è entrato in questa fame, come è entrato nella sofferenza atroce del ladrone crocefisso accanto a lui e nella sofferenza di ogni uomo, come è entrato nella morte. Perciò egli può identificarsi negli affamati e nei poveri, e con essi gridare: «Dacci oggi il nostro pane»; e con essi morire, quando il pane non arriva... Ma con essi anche risorge – con i poveri e gli affamati, gli unici che di fronte a Dio hanno un nome, i privilegiati ad essere accolti nel «seno di Abramo» per giudicare il mondo (cf. Lc 16,19-31).

Gesù risorto, è Pane di vita eterna perché, prima, si è fatto «chicco di grano che muore»; è Pane di vita eterna, poiché si è consegnato a noi nei semplici segni del pane spezzato e del calice di vino distribuito tra noi; è Pane di vita, poiché ha restituito alla nostra fame il suo senso originario di «fame di Dio»; è Pane di vita, perché ci rimanda incessantemente alla situazione tragica in cui si trovano milioni di nostri fratelli che di fame muoiono, e ci ordina: «Date loro voi stessi da mangiare» (Mt 14,16).

 

«Dacci oggi il nostro pane quotidiano». Questa richiesta del Padre nostro esprime la nostra disponibilità a vivere, anche oggi, da figli di Dio pienamente figli di questa terra. Chiedendo, riconosciamo che ogni bene viene da Dio, anche se lo produciamo col lavoro. Inoltre, chiedendo, riconosciamo nel campo che coltiviamo una proprietà del Padre; in chi lo lavora, i suoi collaboratori nell’opera della creazione; nel frutto del lavoro, il nutrimento al quale, ogni giorno, l’operaio ha diritto.

Con questa richiesta ci riconosciamo partecipi del progetto d’amore del Padre, consapevoli d’essere soltanto amministratori responsabili, non padroni, della vita viene da lui.

Se cedessimo alla smania di volerci dare vita da soli o di spadroneggiare su di essa a piacimento, diventeremmo violenti e freddi e finiremmo per distruggere la nostra esistenza e la Terra in cui abitiamo. Chiedendo il pane, invece, rientriamo nella verità di noi stessi, che è quella di persone chiamate alla vita per «crescere in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (cf. Lc 2,52), liberi e aperti alla fiducia nel Padre nostro che è nei cieli.