OFS Ferrara – Incontro del 16.11.2008 – San Maurelio

 

Appunti di p. Carlo Dallari

 

 

 

«Desiderate di possedere lo Spirito del Signore»,

cioè il Regno di Dio

 

 

 

 

 

È ben nota l’espressione con la quale Francesco uscì allorché, un giorno, mentre percorreva un bosco cantando le lodi del Signore, fu assalito da briganti che gli chiesero: “Tu chi sei?”. Egli rispose con sicurezza: “Io sono l’araldo del Gran Re” (cf. 1Cel VII,16: FF 346).

Il messaggero di Cristo Francesco fa del Regno di Dio l’oggetto della propria predicazione (FF 307): proclama al mondo che Dio è Padre e Signore, e che vuole estendere il suo Regno d’amore su tutti i suoi figli.

 

Al tempo di san Francesco, si identificava il regno di Dio con il regno e la potenza della Chiesa; il trionfo delle armi dei principi cristiani (crociate contro gli infedeli, spedizioni contro eretici…) era il «trionfo di Dio», la magnificenza delle chiese e gli sfarzi dei palazzi erano prova dell’appartenenza a questo Regno. Le parole con le quali Francesco parla del Regno di Dio sorprendono per la fedeltà all’insegnamento evangelico e per la loro modernità. Dai pochi accenni contenuti negli Scritti e nelle Fonti, appare che Francesco ne ha un’idea ben precisa: è la Signoria di Dio che si estende nel cuore dei suoi figli per sola sua grazia e, allo stesso tempo, è la patria nella quale tutti siamo chiamati ad avere la nostra dimora definitiva.

In quanto evento di grazia, privo d’ogni caratteristica sociale, politica o culturale, il Regno è dono esclusivo di Dio, frutto del suo amore riversato in noi, nei nostri cuori, nelle nostre coscienze, nel nostro vivere. È dunque un evento essenzialmente religioso, capace di condurci al pieno possesso della vita eterna, dove la conoscenza di lui è luminosa e l’amore, la comunione e il godimento di lui senza limiti.

 

Del Regno Francesco afferma che noi già possediamo un anticipo (caparra) nelle sofferenze sopportate pazientemente e con amore (FF 802): esse ci fanno partecipare alla croce di Cristo, che per amor nostro ha donato la propria vita.

Dobbiamo perciò custodire la grazia di essere resi partecipi sin d’ora del Regno. In che modo? Anzitutto mediante l’eucaristia: mangiare la carne di Cristo e bere il suo sangue fa della nostra vita una esistenza eucaristica, vissuta cioè in comunione con Cristo. Inoltre, mediante la partecipazione alla povertà di Cristo: proprio la povertà ci fa diventare eredi del Regno di Dio (FF 660). Infine, mediante la vigilanza: mantenerci pronti a riconoscere e a respingere l’amore del denaro come la tentazione più subdola e capace di farci perdere il Regno (FF 28).

Quando Francesco scrive che i suoi frati “non cerchino vesti preziose in questo mondo perché possano avere una veste nel regno dei cieli”, sentiamo riecheggiare in queste parole la parabola degli invitati a nozze. Egli richiama tutti i suoi figli a indossare la “veste nuziale”, cioè l’amore alla povertà, concreto anticipo del Regno e garanzia sicura del possesso definitivo.

 

La parafrasi del Pater

 

Soffermiamoci ora sulle parole con le quali Francesco commenta e amplia la richiesta del Padre nostro:

 

«Venga il tuo Regno»: affinché tu regni in noi per mezzo della grazia e ci faccia giungere nel tuo Regno, dove la visione di te è senza veli, l’amore di te è perfetto, la comunione con te è beata, il godimento di te senza fine».

 

«Venga il tuo Regno», chiediamo al Padre, quel Regno formato da cuori aperti ad accogliere la sua paternità misericordiosa, pronti a viverla nella pace e nell’armonia della fraternità.

Inattuali in pieno medioevo, queste parole di Francesco forse ancora oggi sono accolte con sufficienza da chi è convinto che, su questa terra, sia opportuno che, del regno di Dio, ce ne occupiamo noi, con i nostri mezzi, la nostra organizzazione, la nostra logica. In fondo, costoro sono convinti che, nel suo regno, Dio sia una specie di monarca assoluto; sono anche convinti che i suoi fedeli rappresentanti debbano avere un potere tale da contrastare le forze degli altri regni. Ma, così pensando, non fanno altro che applicare al regno di Dio le stesse leggi che regolano il funzionamento di un qualsiasi dominio mondano. E sbagliano, perché il regno di Dio – come bene esprime la liturgia – è un «regno eterno e universale: regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace».[1]

La visione di Francesco è pienamente evangelica e, di conseguenza, sempre attuale. Può ancora dire cose importanti anche a noi, uomini e donne ormai appartenenti ad una società che ama proclamarsi “post-cristiana”.

 

Ti riconosco fratello

 

Cristo ha impiantato il regno di Dio parlandoci del Padre suo, donando la sua vita per noi sulla croce e donandoci il suo santo Spirito.

Egli ci fa conoscere il Padre perché questo Padre sogna di avere il primo posto nell’esistenza e nel desiderio dei propri figli. Pregando «venga il tuo Regno», mettiamo il Padre al centro del nostro desiderio e ci dedichiamo ai suoi «interessi», convinti che egli è realmente il «sommo bene, eterno, dal quale proviene ogni bene e senza il quale non esiste alcun bene»,[2] pronti ad amarlo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente e con tutte le nostre forze. Morendo per noi, ci riconcilia col Padre. Donandoci il suo Spirito, ci apre la via a vivere da fratelli.

La nostra risposta a questo dono di grazia e di misericordia esige da noi una vera conversione del cuore, un cambiamento che capovolga il nostro abituale modo di relazionarci con Dio, così segnato dalla fragilità, dalla tentazione e dal peccato. Pretendiamo di essere noi l’origine e il senso del tutto e non ci rendiamo conto che qui si annida l’idolatria e la ragione ultima di quel «rifiuto del padre», che sta all’origine delle tragedie della modernità. Non si vuole nessun dio al di sopra di sé, nessun potere che limiti o annulli l’autonomia e la libertà raggiunta e questo rifiuto crea una società di uomini senza radici, «consapevoli» solo di discendere dalla scimmia e di andare verso il nulla.

Questa conversione esige, da parte nostra, di prendere a cuore gli interessi del Padre, rifiutando tenacemente di volerci mettere al posto di Dio. Esige di volere vivere da figli, respingendo quella sottile tentazione di ritenere che Dio non sia capace di tutelare i propri interessi in questo mondo, che sia troppo lento a impiantare il Regno e ad imporre la propria volontà. Chi cede a questa tentazione ben presto si sente autorizzato a prendere il posto di Dio, afferrando saldamente le redini del potere, nella presunzione di riuscire a far girare meglio le cose. In realtà, costoro pensano che il regno di Dio sia il risultato della loro politica, dei loro progetti e dell’impegno profuso per realizzarli. Ma non sono altro che illusi, gente che ha confuso il trionfo della propria causa con il trionfo di Dio.

Noi non siamo Dio, siamo soltanto alcuni dei suoi figli; e Dio non trionfa certo, quando noi schiacciamo o calpestiamo anche uno solo degli altri figli suoi. Lui stesso, in Cristo, ha preferito essere calpestato e ucciso, piuttosto di perdere anche un solo essere umano. Egli trionfa quando l’amore vince nel cuore dell’uomo e quando noi, non osando neppure alzare lo sguardo al cielo, riusciamo appena a dire: «Padre, abbi pietà di me: ho peccato contro di te, accoglimi di nuovo tra le tue braccia».

 

La conversione del cuore esige di seguire da vicino il Figlio di Dio, portando ogni giorno la sua croce e sopportando le nostre piccole croci come suo dono. Seguire il Figlio, accettare di avere i suoi stessi sentimenti, operare come lui ha operato, questa è la via maestra per realizzare il desiderio profondamente umano di «diventare come Dio».

Quando, mediante la conversione, rinunciamo ad essere noi il centro dell’universo, scopriamo una realtà altrimenti nascosta: che il Padre celeste ama essere circondato dai figli, amati tutti, singolarmente e concretamente, in modo infinito. E scopriamo che egli ci dona la possibilità di realizzare questa vocazione, poiché ha effuso in noi il suo Spirito che, in noi, grida: «Abbà, Padre!». Abbracciati da quest’amore, sperimentiamo una nuova comunione e un nuovo modo d’essere uomini. Questa «novità» è data dal fatto che c’è già, qui ed ora, il regno del Padre. Ne individuiamo la presenza in tanti segni e, specialmente, in quella particolare forma di vita, che Francesco d’Assisi ha designato col nome di «fraternità».

Egli chiamava con questo nome la famiglia di coloro che, assieme a lui, facevano nuova esperienza della verità e della forza della Parola di Gesù:

 

«Avete inteso che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale merito n’avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti com’è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,43.48), la cui perfezione è la misericordia.

 

La fraternità realizza una convivenza che ha per base il rapporto di reciprocità tra persone, tra uomini e donne che si considerano «fratelli e sorelle» gli uni per gli altri. Traduce in strutture quel profondo sentimento e quel valore, che sono impliciti nel concetto evangelico di fratello.

L’intuizione di Francesco di interpretare la Chiesa e la vita cristiana come attuazione della fraternità universale, tesa a restituire ad ogni creatura l’amore della grande paternità di Dio, è stata incredibilmente feconda, tanto da dare inizio – secondo gli studiosi – a un «uomo nuovo». Francesco è stato iniziatore di una stagione nuova nella storia dell’umanità: questo è un dato culturale generalmente acquisito. La sua intuizione è diventata testimonianza luminosa di una profonda verità: il Vangelo è traducibile nella vita quotidiana di ogni singolo battezzato, e la paternità di Dio è realmente fonte di uguaglianza e di libertà.

La fraternità vissuta è la prova che le relazioni reciproche possono essere guidate dall’insegnamento evangelico. È dunque possibile smettere di comportarci come padroni che esigono di essere serviti con timore, o come rivali da battere in competizione; è possibile comportarci come fratelli che desiderano servire con cura e sollecitudine ogni altri fratello. Ascoltiamo Francesco: «Ciascuno ami e nutra il suo fratello, come la madre ama e nutre il proprio figlio, in quelle cose in cui Dio gli darà grazia»;[3] e «Chiunque verrà da loro, amico o avversario, la­dro o brigante, sia ricevuto con bontà».[4] In queste semplici indicazioni emerge indubbiamente un grande senso di responsabilità per il bene del fratello e di rispetto per la sua dignità umana.

 

Con questi semplici principi Francesco si è mosso alla conquista di un mondo scaltro e saputo, e di una società nella quale emergeva sempre più potentemente la domanda di libertà e si imponeva la competizione politica e commerciale; una società che aveva bisogno di trovare un senso religioso alle proprie esigenze, per non tradire quella fede che costituiva il substrato del suo vivere civile.

Egli li consegna a noi, che viviamo in una società che esprime le stesse domande di libertà e le stesse esigenze di responsabilità. Domande alle quali siamo sollecitati a trovare una risposta partendo dal Vangelo, ma soprattutto riscoprendo il senso di una fraternità che genera nuovi rapporti, veramente umani, tra le persone.

 

Conclusione

 

C’è una frase di Francesco che riassume bene la sua idea di Regno di Dio: «Avere lo Spirito del Signore» (FF 104). Mediante lo Spirito Dio regna in ogni uomo e nel cuore della vita quotidiana, tanto che nulla di tutto ciò che è buono, vero e giusto può dichiararsi a lui estraneo. E coloro che vivono nello Spirito del Signore sono i testimoni credibili del Regno di Dio in mezzo a noi.

Ricordiamoci, infine, che, quando preghiamo «venga il tuo Regno», cominciamo ad occuparci del Padre e del suo Regno. Chiedendo che la sua paternità si espanda in ognuno dei suoi figli ci impegna a trovare tempi e modi per portare il nostro contributo alla costruzione di una società veramente libera, non asservita cioè a ideologie che la sviliscono, veramente fraterna e aperta alla speranza.

 

 

 



[1] Prefazio della domenica di Cristo Re dell’universo.

[2] Francesco d’Assisi, Scritti: FF 267.

[3] Ivi: FF 32.

[4] Ivi: FF 26.