OFS Ferrara – Incontro del 28.09.2008 – San Francesco

 

Appunti di p. Carlo Dallari

 

 

 

Venga il tuo Regno

 

 

 

Il Signore ha proclamato: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”. Il Regno appartiene ai poveri: ecco una notizia buona e piena di speranza, ma anche un annuncio perennemente sovversivo, poiché ribalta i nostri luoghi comuni, la nostra logica mondana.

Quando chiediamo al Padre: “Venga il tuo Regno”, dobbiamo essere intimamente disposti a farci poveri secondo lo Spirito, cioè umili di cuore e disponibili collaborare con lui, come ha fatto Maria, la “povera del Signore”.

Questa disposizione ci è chiesta anche dalla Regola, che ci ricorda di essere «chiamati, insieme con tutti gli uomini di buona volontà, a costruire un mondo più fraterno ed evangelico per la realizzazione del regno di Dio…» (Regola Ofs, n. 14).

Realizzare il regno di Dio. Ecco la nostra missione di francescani. Ma cosa significa in concreto?

 

Per individuare la risposta occorre, anzitutto, sgomberare il campo da ogni possibile equivoco sull’espressione “regno di Dio”. E di equivoci ne girano parecchi, originati da ignoranza, certamente, ma anche da paura.

In molti dei nostri contemporanei, ad esempio, ogni volta che sentono qualche “uomo di religione” usare termini che richiamino in qualche modo il “potere” (come appunto quando accostiamo “regno” e “Dio”), per una specie di istinto riflesso scatta la paura del fondamentalismo religioso, dell’ingerenza della Chiesa negli affari dello Stato, dell’attentato alla laicità… In questo caso si interpreta il “regno” come una entità politica, nella quale il potere sia nelle mani di uno o di pochi (il “Vaticano”, la chiesa, i preti, i clericali, ecc.). Questa mentalità è molto diffusa ed è più grave di quel che si pensi, poiché influisce anche sul nostro modo di credere, e dunque influisce sul nostro rapporto con Dio. Là dove la forza conta più della debolezza, la vittoria più della sconfitta, il denaro più della povertà, la furbizia più della semplicità o il chiasso davanti a Dio più del silenzio, lì scatta anche la paura dell’intrusione di Dio, avvertito come colui che viene a rompere le uova nel paniere dei nostri interessi. Le conseguenze possibili? Si rischia di ripetere il dramma di Caino, quello di tagliare Dio fuori dalla nostra vita sociale: “Che c’entri tu con noi? – diceva Caino –. Abele è questione mia”. E lo ammazzò.

L’uomo che interpreta la propria esistenza come un sistema di potere diventa dio di se stesso e non tollera alcun regno che non sia il proprio, né sopra di sé, né fuori di sé.

Se dunque vogliamo collaborare con Dio alla realizzazione del suo regno, occorre che ci chiariamo veramente le idee su ciò che Gesù intende quando ci insegna a chiedere al Padre l’avvento del suo regno.

 

1. Regno “di Dio / dell’uomo”. I nostri “regni” sono l’espressione infinitamente varia non solo della nostra capacità di organizzare la vita sociale, ma anche della nostra sete di potere e di tutto ciò che mettiamo in opera per impadronircene, mantenerlo, potenziarlo e difenderlo. Abbattiamo regni e li sostituiamo con altri, a seconda delle esigenze, della potenza e della fortuna. E dopo aver investito tanto in termini di energie e di risorse, arriva il momento in cui l’impero si logora e cade. Di esso non rimane altro che il ricordo sui libri di storia e qualche frantumo, raccolto come pezzo da museo.

Cristo ci insegna forse a chiedere al Padre qualcuno di questi “regni”? No. Cos’è dunque questo regno di cui parla Cristo? Mentre il pio israelita se lo rappresentava quasi come un paese del bengodi, Gesù ci fa capire che esso è una realtà alquanto diversa: non coincide con nessun regno degli uomini, realizzato o immaginato. Intanto, poiché è «di Dio», non può essere qualcosa appartenente esclusivamente al mondo degli uomini. Non è come i nostri regni, ma neppure qualcosa di puramente spirituale. È la sua “signoria”, la sua “regalità divina”, la sua paternità che va instaurandosi nel mondo attraverso il Figlio suo, per il quale tutto è stato fatto e al quale tutto fa riferimento come fine ultimo, come compimento della storia e del mondo.

 

2. Regno e Cristo. Del regno di Dio Gesù è la presenza stessa nel nostro mondo. In lui, Figlio di Dio, la paternità di Dio diventa visibile, radicata nella nostra umanità, operante nella nostra storia. Possiamo dire che il regno è Cristo stesso, venuto a dirci che Dio è Padre che ci ama e desidera ardentemente che tutti noi, suoi figli, ne riconoscano la paternità di misericordia e di amore. In Cristo e attorno a Cristo viene a formarsi la famiglia dei figli di Dio, il germe del Regno in questo mondo.

È dunque necessario che ci mettiamo al suo seguito per vedere all’opera questo Regno. E, seguendolo, osserviamo come, a chi gli tendeva tranelli per avere di che accusarlo davanti al procuratore romano, egli dice che “bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare”, senza mescolare indebitamente il suo potere con quello di Dio. Una volta, poi, tradotto davanti a Pilato, egli chiarisce ancora meglio la sua posizione. Nel dialogo con Pilato, il governatore romano che, da vecchia volpe, vuole verificarne l’esatta pericolosità, Gesù afferma che il suo Regno non è di ordine politico o militare. Nessuno deve aver motivo di temere questo rabbi che, ben presto e dall’alto di una croce, dimostrerà il senso profondo delle sue parole: egli è un re che si è fatto nostro servo (Fil 2), sino a donare la propria vita per noi; un re che manifesta in questo modo di che natura sia l’onnipotenza di Dio. A noi, assillati dalla smania del potere, dimostra che il suo regno e la sua potenza consistono essenzialmente nell’onnipotenza dell’amore.

Il regno di Dio si radica nella nostra umanità e nella nostra storia con la Pasqua di morte e risurrezione di Gesù e inizia ad espandersi con la discesa dello Spirito Santo a Pentecoste. Da quel momento, il Regno è lo Spirito del Risorto che da sapore e fermenta la vita del mondo.

 

3. Regno come famiglia dei figli di Dio. Invocando “venga il tuo Regno”, esprimiamo il desiderio che il Padre ci raccolga attorno al Figlio come “famiglia dei figli di Dio”. Questo è naturale, poiché non c’è padre senza figli; ma, soprattutto, non c’è padre felice se non ci sono i figli a fargli corona.

Ecco allora il grande dono che ci fa Gesù: ci raccoglie nella sua preghiera e nel suo sacrificio e ci porta davanti al Padre. E noi, assieme al Figlio, diciamo al Padre di essere felici se lui ci raccoglie tutti nel suo abbraccio, nonostante troppe volte non abbiamo riconosciuto e accolto il suo amore, gli abbiamo voltato le spalle e ce ne siamo andati per i fatti nostri, lontano da lui.

In che modo il Padre fa di noi la sua famiglia? In che modo la sua bontà fa irruzione nella nostra vita e ci raggiunge il cuore, trasformandolo “da cuore di pietra in cuore di carne”? Mediante lo Spirito. Egli manda a noi il suo santo Spirito, il quale suscita in noi la fede nel Figlio, ci ricorda la sua Parola, muove a conversione, crea una nuova comunione col Padre. In una parola, crea in noi uno “spirito di figli”, ci plasma a “immagine e somiglianza del Figlio secondo lo spirito”. Ci fa crescere nella santità.

Nella forza dello Spirito ci è concesso di seguire Cristo, il nostro Re. Noi potremo seguirlo, poiché lo Spirito ci dona di avere gli stessi sentimenti di Gesù (Fil 2), cioè d’essere poveri, invece che servi dell’ingordigia; d’essere miti, invece che prepotenti; semplici, invece che furbi, pacificatori, invece che violenti… Attraverso questa grazia il Regno non solo si radica nei nostri cuori, ma si impianta anche nella nostra società.

 

4. “Di Dio”, cioè sempre “dono”. Causa questo intreccio dell’azione di Dio e della nostra collaborazione mediante la rinuncia ad ogni forma di potere umano, possiamo ben comprendere come non si possa costruire il regno di Dio a partire dalle sole nostre forze umane. “Ciò che costruiamo è sempre regno dell’uomo con tutti i limiti che sono propri della natura umana. Il regno di Dio è un dono” (Benedetto XVI, Spes salvi, 35). È un dono sempre da invocare, sempre da accogliere, sempre da realizzare, nella certezza che Dio, nel suo amore, saprà portare a compimento la sua promessa e quanto ha iniziato in noi.

La condizione necessaria per accogliere, conservare, sviluppare il dono del Regno è la povertà. Su questa scelta non è possibile addurre pretesti. Prima di imporla ai discepoli, infatti, Gesù l’ha scelta per se stesso e l’ha vissuta sino alla morte. Fin dall’inizio della sua missione, egli aveva rifiutato le tre vie che gli proponeva il Tentatore: la via dell’avere, quella del potere e quella della gloria. Coerentemente, nella sua predicazione e nella sua azione tesa a realizzare il regno di Dio egli sceglie la via della povertà dei mezzi, quella del servizio e quella dell’umiltà. Per questo motivo, anche i suoi discepoli dovranno seguire la stessa via. Una chiesa posta al servizio dell’avere, del potere e della gloria tradisce Cristo stesso.

Condividere la povertà di Cristo e confidare in lui, più che sui mezzi che possiamo mettere in campo, comprese le alleanze coi “potenti” ci aiuta a superare una tentazione frequente: quella di servire il nostro prossimo con i beni materiali che egli ci chiede o di cui possiamo disporre. Di fronte a noi sta l’esempio degli apostoli Pietro e Giovanni. Rivolgendosi a uno storpio che chiedeva l’elemosina alla porta del Tempio, Pietro così dice: “Argento e oro non ho, ma quel che possiedo te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il nazareno, cammina!”. L’oro avrebbe lasciato quello storpio nella sua menomazione; il nome di Gesù lo ha liberato. È un episodio indicativo. Cosa mai potrebbe (o vorrebbe) dare di più e di meglio il cristiano a chi cerca il regno di Dio? Ciò non toglie che, assieme l’annuncio di Cristo che resta primario, esso non debba dare anche il pane di cui avesse bisogno…

 

5. “Venga dunque il tuo Regno”.  Si realizzi e si espanda nel nostro mondo il tuo Regno. Te lo chiediamo non solo per noi, personalmente, ma anche per l’insieme della grande famiglia dei tuoi figli, gli uomini nostri fratelli. Affretta l’affermazione della tua paternità su tutti gli uomini, affinché essi ti riconoscano come Padre e vivano nel tuo amore, affinché il tuo Regno di amore, di giustizia e di pace metta radici nei nostri cuori. Lo chiediamo con insistenza, con fiducia e con speranza, poiché non sappiamo come vivere lontano da te, sapendo che tu ci ami di amore infinito. Senza l’abbraccio della tua giustizia, siamo come pecore perdute senza pastore; senza la tua pace nel nostro cuore, siamo come un paese immerso nella tenebre della disperazione.