OFS Ferrara – Incontro del 18.5.2008 – Santo Spirito

 

Appunti di p. Carlo Dallari

 

 

 

L’eclissi della santificazione del Nome

 

 

 

“Sia santificato il tuo Nome”. Nel nostro cammino di fraternità abbiamo sostato a riflettere sul significato di ogni singola parola di questa domanda del Padre nostro.

 

Abbiamo detto che, per la Bibbia, il Nome è in stretta relazione con l’essere. Perciò, il Nome di Dio è la sua “epifania”, la sua immagine e, come la sua immagine, può essere solo rivelato da Dio stesso. Di Dio nessuno “conosce” il Nome, tranne il Figlio, come nessuno può farne un’immagine, perché Dio ha costituito l’uomo come propria immagine.

Questo principio fa del cristianesimo non una religione tra le altre, ma una fede che mette sotto giudizio ogni religione, ogni espressione religiosa, dal momento che la religione è, in fondo, un tentativo di rappresentarsi Dio.

Poi ci siamo soffermati sul tema della santificazione del Nome: Dio, deve essere santificato, glorificato, lodato, onorato.

È Dio che, prima di ogni nostra azione, santifica il proprio Nome. Egli manifesta la propria santità liberando Israele dalla schiavitù e legandolo a sé come proprio popolo. Nella pienezza dei tempi, poi, libera l’umanità dalla schiavitù del peccato mediante il Figlio e radunandola in una sola famiglia mediante lo Spirito Santo. Gli uomini rispondono a questa azione santificatrice, con la propria santità, cioè riconoscendo Dio nel Padre e glorificandolo con una vita da “figli nel Figlio”.

La santità dell’uomo, quale risposta alla santità di Dio, è affermata sin dall’AT. Ascoltiamo, ad esempio, il profeta Isaia:

 

«D’ora in poi Giacobbe non dovrà più arrossire,

          il suo viso non impallidirà più,

          poiché vedendo il lavoro delle mie mani tra di loro,

          santificheranno il mio nome,

          santificheranno il Santo di Giacobbe

            e temeranno il Dio di Israele. (Is 29,22-23)

 

Ora, proprio questa nostra risposta all’opera di Dio appare problematica, poiché tutti siamo soggetti alla fragilità, tutti siamo tentati di non glorificare il Nome santo e di profanare la sua santità, attribuendogli un nome falso o una falsa immagine. Questa tentazione è estremamente pericolosa, poiché siamo naturalmente sedotti dal Nome e dall’immagine che assegniamo a Dio e tentati di divenire simili a ciò che abbiamo creato...

È la tentazione dell’idolatria, l’esatto contrario della santificazione del Nome di Dio ed espressione di una religiosità deviata e ingannevole.

 

 

 

 

L’idolatria

 

 

“Idolo” viene dal greco eidolon (radice vid, da cui video) = cosa visibile. Nella Bibbia eidolon traduce l’ebraico pesel = scultura, statua, oggetto (da questo termine deriva la parola italiana fasullo).

Per estensione, “idolo” indica anche ogni immagine mentale, il “fantasma”, l’idea, la rappresentazione che tenta di catturare Dio mediante la parola o la sensazione, per poter concludere “Dio è così”. Quando l’uomo, che è la vera immagine di Dio, si crea delle immagini di Dio, queste non possono essere altro che idoli.

La fede biblica nega all’idolo ogni trascendenza, coscienza e identità. Solo Dio è uno, mentre l’idolo è molteplice; e più gli idoli si moltiplicano, più Dio viene eclissato e si nasconde all’uomo.

Dio inizia là dove le nostre immagini finiscono

 

 

«Sia santificato il tuo Nome». Con questa invocazione chiediamo al Padre nostro che è nei cieli di non lasciare che il suo Nome sia profanato, secondo la sua Parola: “Non pronuncerai invano il Nome del Signore, tuo Dio” (Es 20,7). “Invano”, cioè in modo vuoto, falso, come nello spergiuro, nella falsa testimonianza, nell’uso magico del suo Nome, o per togliere la vita, per parlare in nome di false divinità, ecc. Inoltre, gli chiediamo di liberarci dalla schiavitù dell’idolatria, secondo il suo comandamento:

 

«Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai» (Es 20,2-5. Cf. Dt 5,6-9).

 

All’uomo che si consuma dalla voglia di vedere, toccare, conoscere Dio, la Bibbia oppone un Dio che abita in una luce inaccessibile e si sottrae al controllo dei nostri sensi:

 

«Dio disse a Mosè: “Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”. Aggiunse il Signore: “Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere”» (Es 33,20-23).

 

La proibizione di costruirsi immagini di Dio è assoluta. Questo comando si estende a qualsiasi immagine possiamo costruire, sia essa fisica o razionale o emotiva o di altro genere.

Per quanto riguarda noi, uomini evoluti dell’età moderna, non dobbiamo essere superficiali e concludere che l’idolatria è roba d’altri tempi. È presente ben più di quanto sospettiamo, ed è anche raffinata. Pensiamo all’immagine di Dio che si è imposta nella nostra cultura, elaborata dal cosiddetto deismo, [movimento culturale di orientamento razionalista, che attribuisce a Dio elementi tratti dal comune modo di pensare]. Il deismo, coltivando un’immagine di Dio strettamente connessa al cosmo, ha aperto una via perversa che allontana dal Dio rivelato da Gesù, l’unico che conosce Dio e lo può rivelare, come ci ricorda l’evangelista Giovanni:

 

«Dio nessuno l’ha mai visto:

proprio il Figlio unigenito,

che è nel seno del Padre,

lui lo ha rivelato»

(Gv 1,18).

 

Il pericolo dell’idolatria è, ai nostri giorni, tutt’altro che teorico. Anzi, è ancora più insidioso che in altri tempi, poiché nei nostri paesi occidentali assorbiamo sin da piccoli idee, concetti, immagini di Dio che crediamo cristiane, ma che in realtà non lo sono per nulla. È da tempo che il papa e i nostri pastori più illuminati cercano di attirare l’attenzione su questo pericolo. Ma…

 Per idolatria intendiamo la deviazione sull’idolo dell’adorazione dovuta a Dio soltanto. È una strada affascinante, ma porta alla schiavitù; è una gabbia dorata, ma toglie la libertà ai figli di Dio. Alla sua radice sta il cosiddetto “peccato del mondo” (Gv 1,29), che è essenzialmente rifiuto di riconoscersi figli di Dio. Questo peccato deforma l’immagine di Dio che noi siamo, ci trasforma in esseri autoreferenziali, in idolo, dio di noi stessi. Secondo la Bibbia, infatti, il peccato è sempre una volontaria deviazione dalla rettavia che induce una deformazione nell’essere umano (awon = ciò che è deformato: cf. ad esempio Sal 51,4-5).

L’idolatria è opera subdola del Tentatore, il quale induce a farsi di Dio un’immagine perversa (cf. Bellet, Le Dieu pervers) e a deviare sull’idolo l’adorazione dovuta a Dio solo.

Ne abbiamo un esempio classico nell’episodio del vitello d’oro (Es 32,1ss), che rappresenta il “peccato originale” del popolo d’Israele, poiché ripete quanto accadde agli inizi dell’umanità.

Nel racconto del peccato delle origini, il serpente aveva suggerito ai progenitori un’immagine perversa di Dio: il Dio che vieta tutto, geloso dell’uomo, suo rivale… Allo stesso modo, anche nell’episodio del vitello d’oro il Tentatore sobilla Israele a costruirsi un’immagine perversa di Dio: ai piedi del Sinai, infatti, il popolo non si volge a un altro dio, ma si costruisce un’immagine visibile di quel Dio invisibile e dal nome impronunciabile che li ha fatti uscire dall’Egitto. “Ecco il tuo dio!”, esclameranno, dopo aver costruito il vitello; un dio visibile, un dio con un nome… Tuttavia, un dio manufatto, un’opera degli uomini!

Per Israele caduto nell’idolatria YHWH rimane il Signore, ma il suo volto e il suo nome sono quelli che gli uomini gli danno ora volgendosi al vitello d’oro.

Una conferma che qui ci troviamo di fronte a una deviazione idolatrica l’abbiamo negli sviluppi che ebbe l’episodio del serpente di bronzo. Dio aveva ordinato a Mosè di porre al centro dell’accampamento, su un’asta, un serpente di bronzo, segno della propria misericordia verso il popolo vittima dei serpenti velenosi (Nm 21,4-9). Quando poi quel serpente diventò una reliquia idolatrica, il re Ezechia lo fece distruggere:

 

«Egli eliminò le alture e frantumò le stele, abbattè il palo sacro e fece a pezzi il serpente di bronzo, eretto da Mosè; difatti fino a quel tempo gli Israeliti gli bruciavano incenso e lo chiamavano Necustan»

(2Re 18,4).

 

Anche noi dobbiamo distruggere i nostri “serpenti di bronzo”, i nostri idoli, cioè disimparare il dio del deismo, le cui immagini si insinuano nel nostro cuore, nelle nostre parole e nelle nostre azioni.

 

Prima di tutto dobbiamo riconoscere l’idolo della potenza. Esso sta alla radice di tutte le alienazioni idolatriche. Chiamiamo Dio “onnipotente”; solo che egli non ha mai preteso “onnipotenza”, come noi vorremmo. Interpretiamo l’icona del “Pantocrator” (così frequente nelle antiche basiliche bizantine), come l’“Onnipotente”, ma quel titolo dice soltanto che egli è l’“Omnitenens”, colui che tutto abbraccia. Il deismo attribuisce al Dio (del creato) un potere materiale infinito, mentre il nostro Dio (che è Dio dell’uomo) possiede in pienezza ed esercita soltanto l’onnipotenza dell’amore...

Cristo combatte la tentazione della potenza basando la propria missione sulla vera adorazione di Dio, rifiutando ricchezza, potere e gloria, facendosi servo di tutti e rifiutando persino di strappare la fede ai suoi nemici, scendendo dalla croce…

Egli ci insegna che Dio sceglie ciò che nel mondo è debole, stolto, ignobile per confondere le nostre tentazioni (cf. 1Cor 1,27-29). Noi vogliamo la chiesa dominatrice, non serva; mettiamo la nostra fede nel denaro e nei mezzi materiali, vogliamo contare, essere presenti, apparire, con una fiducia smisurata nei nostri manufatti e nei privilegi offerti dal potere politico e dalle potenze umane (cf. GS 43 e 76)… Ma Cristo continuerà ad opporci la Parola: “Il mio regno non è di questo mondo”.

 

E poi, l’idolo della giustizia. È luogo comune l’immagine di un Dio che esige giustizia, di un Dio che, nella sua ira per i peccati degli uomini, ha avuto bisogno di essere placato dal sangue del Figlio. L’immagine di un Dio implacabile nel pareggiare i conti la ritroviamo in diversi passi dell’AT, come, ad esempio, nel profeta Naum:

 

«Un Dio geloso e vendicatore è il Signore,

vendicatore è il Signore, pieno di sdegno.

Il Signore si vendica degli avversari

e serba rancore verso i nemici.

Il Signore è lento all'ira, ma grande in potenza

e nulla lascia impunito.

Nell'uragano e nella tempesta è il suo cammino…»

(Naum 1,2-3).

 

Quando parliamo di giustizia di Dio e l’intendiamo secondo le nostre coordinate umane, ecco che ci facciamo un’immagine di Dio assolutamente perversa.

Certo, rappresentarsi un Dio che gode della sofferenza del proprio Figlio, poiché placa la sua sete infinita di giustizia, è assolutamente ripugnante. Il nostro Dio non è così, e la cosiddetta “teologia della soddisfazione”, in auge per alcuni secoli in occidente, è anticristiana e antievangelica.

Dio è davvero il «misericordioso e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore». Egli non può castigarci sin che siamo in vita, poiché ha creato l’uomo libero e lo rispetta nella sua libertà. Se c’è un castigo, è quello che l’uomo si infligge da se stesso, causa del proprio male.

Tutto questo non vuol dire che Dio rinunci al proprio giudizio (quello di cui parliamo nel Credo). Il suo giudizio è necessario, altrimenti tutto è fasullo. Il giudizio di Dio è ciò che riporta la nostra vita alla verità, è l’evento che dà giustizia a tutte le genti della Storia, poiché dà a tutti quella pienezza che la vita non ha dato o non ha saputo dare.

 

Dobbiamo anche riconoscere i nostri piccoli idoli, non per scrupolo da perfezionisti, ma perché abbiamo a cuore l’adorazione dell’unico Dio.

Quali sono questi piccoli idoli? Soltanto un accenno, senza presunzione di completezza:

 

* Una reliquia, un’icona, uno spazio o edificio “sacro”, una istituzione, una comunità che ci appare assolutamente indispensabile, alcune persone determinanti per la nostra storia…

* Un leader carismatico, un maestro spirituale o un guru al quale ci consegniamo, un’obbedienza cieca ai propri pastori, la smania di protagonismo, la sete di onori e di riconoscimenti…

* Attenzione anche al culto delle immagini, della Madonna e dei Santi, come vengono vissute da certe forme di devozione popolare. Ma, soprattutto, attenzione ad altri dèi, molto più concreti e pericolosi: il dio automobile, calciatore, cantante, film-cult… il dio dell’ideologia, del potere, della salute, del protagonismo ad ogni costo… il dio dell’ideologia clericale (confessionalismo, integralismo, teologia della guerra santa, ecc.). Riguardo a quest’ultimo, da ricordare che la Chiesa non è la meta ultima del mondo e della storia; essa cammina con l’umanità, è in essa come il lievito nella pasta. Guai se tutto diventasse lievito: chi lo mangerebbe?... Per la fede cristiana, Dio è Dio e l’uomo non è Dio. Anche “l’uomo di chiesa”!

* Anche i doni di Dio possono essere causa di idolatria. Questo accade, ad es., quando ce ne appropriamo o li attribuiamo ai nostri “meriti”. Ogni bene viene da Dio ed è di Dio, sommo Bene, anche quello che operiamo. Su questo punto l’insistenza di san Francesco è costante; basti questa citazione: «(i frati) cerchino di umiliar­si in tutte le cose, di non gloriarsi, né godere tra sé, né esaltarsi dentro di sé delle buone parole e delle opere anzi di nessun bene che Dio dice, o fa o opera talora in loro e per mezzo di loro» (FF 47 e 147). La nostra può che essere soltanto una “santità perdonata”!

 

L’adorazione che Dio esige dall’uomo è totale; neppure un’ombra dovrebbe turbarne la limpidezza. Perciò:

* Tutto ciò che aspira a occupare un posto nel nostro cuore deve fare i conti con questa esigenza di base.

* Tutto ciò che impedisce alla Chiesa di esprimere liberamente e gioiosamente la propria adorazione a Dio Padre, nasconde in sé la trappola dell’idolatria, e l’adorazione del solo Dio resta oscurata.

 

Seguire Gesù

 

La lotta contro le nostre idolatrie non è facile, perché le nutriamo e ci impediamo di convertirci o, meglio, di lasciarci convertire da Dio.

L’unica via che può condurci alla vittoria sull’idolatria è quella mettersi al seguito di Gesù per stare con lui (cf. Mc 3,13-14: Gesù chiama a sé e i discepoli vanno con lui). Con Gesù impariamo a stare rivolti al Padre, a riconoscere la tentazione dell’idolatria e a vincerla.

Stare davanti a Dio (“davanti al suo Nome”) nel deserto e sul monte era lo scopo della liberazione di Israele dall’Egitto (Dt 18,5-7). Ma non sempre Israele sarà fedele a questa consegna. Perciò, per mezzo dei profeti, più volte Dio richiama il suo popolo a non profanare il Nome (Ez 36,23. 39,7. 28,22. 20,39. 43,7ss) e gli promette una nuova Presenza capace di trasformarlo (Ez 11,18-21; 36,23-33): «Voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio».

 

Gesù sarà la pienezza di questa Presenza di Dio, l’Io-Sono, il Dio che può dire con piena verità: “Eccomi!”.

Gesù riassume tutta la propria missione con queste parole:

 

«Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo» (Gv 17,6);

«Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; questi sanno che tu mi hai mandato. E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro» (Gv 17,25-26).

 

Gesù ha fatto conoscere il Nome di Dio con la propria Persona, con la Parola e la propria vita; così che gli uomini possano ascoltare e vedere Dio (cf. Gv 14,9). È dunque determinante ascoltare e accogliere Gesù per conoscere Dio. Nel suo stesso Nome è racchiuso quello di Dio; lui stesso è l’Immagine del Dio invisibile: «Chi vede me, vede il Padre». Solo attraverso lui andiamo al Padre. “Dio”, per noi cristiani, è una parola che viene dopo. Prima c’è colui che dà inizio alla nostra fede: Gesù, «autore e perfezionatore della fede» (Eb 12,2).

Gesù ha reso visibile Dio in mezzo a noi, ha reso Dio una “Buona Notizia”.

La vocazione a stare davanti a Dio si realizza seguendo Gesù e rimanendo con lui. San Paolo (1Cor 7,35) esorta ad essere assidui con il Signore, a stare con lui, davanti al suo Nome. Precisamente, davanti al Gesù “secondo le Scritture”, non a quello che immaginiamo noi.

È il Padre stesso che ci indica questa via: “Ascoltate lui!”. Gesù ci chiama a sé per essere con lui pros Theon (Gv 1,1), rivolti al Padre. Se siamo con Gesù, abitiamo presso la fonte che zampilla per la vita eterna e siamo affidati alla sua Parola; se ci abbeveriamo alla fonte della sua Parola siamo evangelizzati e costituiti evangelizzatori.

 

 

Su questo argomento:

 

C. Dallari, Quando dici “Dio”, pp. 59-81.109-111

C. Dallari, Nel cuore del Padre, pp. 137-153

C. Dallari, Perché Dio sia una buona notizia, pp. 21-23

Autori vari, Guardatevi dagli idoli, in Parola, Spirito e Vita, 2002, n. 46.

J. Ratzinger, Gesù di Nazaret, pp. 47-68

Ritiro conclusivo

“Sia santificato il tuo Nome”

Rievocando l’insegnamento di san Francesco

 

 

 

Riguardo ai nomi di Dio che compaiono negli Scritti di Francesco, leggere, ad esempio: FF 49, 55, 61, 62, 63, 66, 69-71, 141, 178/3, 183, 201, 215, 261, 263, 265. [Se ne può trovare una sintesi in Nel cuore del Padre, pp. 68-71]. L’insieme un po’ arruffato di ottantaquattro nomi con i quali Francesco si rivolge a Dio non deve trarre in inganno: ha una sua unità, una sua logica interna, nel senso che sono tutti espressione di quel capovolgimento interiore che è stato la sua “conversione”. Ricordiamone il momento simbolico, lo spogliamento delle vesti davanti al proprio padre Bernardone e al vescovo di Assisi. La sua esclamazione: “Ora potrò dire con tutta sicurezza: Padre nostro che sei nei cieli” è significativa: rimanda a una nuova comprensione di Dio, alla quale egli ricondurrà tutto il proprio essere, pensiero, sentimento, azione. “Padre”, e più precisamente: “Padre del nostro Signore Gesù Cristo”. Questo è, per Francesco, il Nome che racchiude tutti i nomi di Dio.

 

In che modo possiamo santificare il Nome di Dio? Francesco lo indica nel suo Ampliamento del Padre nostro:

 

«Sia santificato il tuo nome:

si faccia luminosa in noi la conoscenza di te, affinché possiamo conoscere l’ampiezza dei tuoi benefici, l’estensione delle tue promesse, la sublimità della tua maestà e la profondità dei tuoi giudizi» (Pater: 268).

 

Come per la Bibbia, anche per Francesco conoscere il Nome di Dio è conoscere il mistero del suo essere, e santificare il Nome è riconoscere Dio come Padre e accogliere l’amore col quale egli ci avvolge.

Per santificare il Nome di Dio, Francesco indica quattro vie:

-         conoscere l’ampiezza dei benefici da lui compiuti

-         e l’estensione dei beni da lui promessi per l’avvenire,

-         fino a intuire la sua maestà inaccessibile

-         e la profondità dei suoi giudizi.

 

Abbiamo, in questa indicazione, due direttrici di fondo: nutrire un forte senso della trascendenza di Dio e contemplare il suo agire misericordioso.

È ciò che lui stesso opera, come testimoniano i suoi Scritti. Per tutti, valgano due passi:

 

«Onnipotente, santissimo, altissimo e sommo Dio, Padre santo e giusto, Signore Re del cielo e della terra, per te stesso ti rendiamo grazie, perché per la tua santa volontà e per l’unico tuo Figlio con lo Spirito Santo hai creato tutte le cose spirituali e corporali» (Rnb 23: 63)

 

«Nient’altro dunque dobbiamo desiderare, niente altro volere, nient’altro ci piaccia e diletti, se non il Crea­tore e Redentore e Salvatore nostro, solo vero Dio, il quale è il bene pieno, ogni bene, tutto il bene, vero e sommo bene, che solo è buono, pio, mite, soave e dol­ce, che solo è santo, giusto, vero, santo e retto, che solo è benigno, innocente, puro, dal quale e per il quale e nel quale è ogni perdono, ogni grazia, ogni gloria di tutti i penitenti e giusti, di tutti i santi che godono insieme nei cieli» (Rnb 23: 70).

 

La conoscenza di Dio non è un’operazione concettuale; è illuminazione.

Per avvicinarsi alla comprensione di Dio Francesco si affidava principalmente ai segni che ne evocano il mistero; il sole, al fuoco, la luna e le stelle “chiare pretiose et belle”, sono per lui i simboli più eloquenti della bellezza di Dio:

 

«Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le Tue creature, spetialmente messor lo frate Sole, lo quale è iorno, et allumini noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: de Te, Altissimo, porta significatione. Laudato si’, mi’ Signore, per frate Focu, per lo quale ennallumini la nocte: ed ello è bello, et iocundo et robustoso et forte» (Cant: 263).

 

Il simbolo apre sulla realtà indicibile. Francesco sa meglio di chiunque altro quanto il mistero insondabile di Dio possa essere soltanto evocato e mai definito. La logica della ragione ha le sue ricchezze, ma anche i suoi limiti. D’altronde, anche in seno alla vita quotidiana l’uomo non potrebbe fare a meno di ricorrere ai simboli per esprimere e vivere l’inesprimibile: l’amicizia, la gioia... Francesco ha l’arte di leggere il mondo visibile per cogliervi i segni e i simboli della sua dimensione nascosta.

Francesco aveva intuito la verità che sta alla radice della nostra fede cristiana: “non si va a Dio direttamente”. Questo è vero, soprattutto perché ognuno rischia di crearselo a sua immagine; siamo molto abili a fare questo. Dio abita in una luce inaccessibile. Solo il Figlio lo ha rivelato. Perciò noi non possiamo avvicinarci al mistero se non attraverso segni e seguendo la Persona e la Parola del Figlio di Dio.

 

Anche noi, che desideriamo conoscere Dio e santificare il suo Nome di Padre, Francesco invita a entrare in comunione con lui, lasciandoci avvolgere dalla sua tenerezza di Padre (cf. E. Leclerc, La tenerezza del Padre, 217), sperimentando l’ampiezza dei suoi benefici, l’estensione delle sue promesse, la sublimità della sua maestà e la profondità dei suoi giudizi, come manifestato dal Figlio suo. È il Figlio, infatti, che ci fa conoscere il Nome di Dio e lo santifica nel modo più sublime.

 

Infine, da Francesco possiamo anche cogliere un duplice orientamento per avvicinarci correttamente al mistero di Dio:

-         conoscere per amare: conoscere Dio per innamorarci di lui. Non ci si innamora di chi non si conosce o si conosce male;

-         amare per conoscere: crescere nell’amore verso Dio per conoscerlo meglio. Non si conosce bene se non chi si ama.