OFS Ferrara – Incontro del 15.03.2008 – Corpus Domini

 

Appunti di p. Carlo Dallari

 

 

Tu sei silenzio

 

 

 

Premessa

 

Nel precedente incontro ci siamo soffermati su “sia santificato (il tuo Nome)”. Abbiamo messo a punto questo significato: Dio santifica il proprio Nome, cioè mostra la propria santità, quando libera e costituisce Israele come popolo che gli appartiene, un popolo eletto col quale stabilisce un’alleanza d’amore.

Questa liberazione / elezione / alleanza trova risposta nella fedeltà e nella conversione di Israele. Una risposta che assume nella storia di Israele un andamento altalenante, sempre sospesa com’è tra fede e idolatria. 

Era dunque necessario che il Figlio si facesse uno di noi per donarci la possibilità di santificare realmente il Nome di Dio e obbedire in pienezza a quanto Dio aveva indicato al suo popolo: “Siate santi, perché io sono Santo”. Ed è ciò che egli ha compiuto con il proprio sacrificio, in virtù del quale ci ha uniti a sé e al Padre con una nuova ed eterna alleanza.

Ora, mediante Cristo, possiamo veramente compiere il nostro cammino di santificazione e glorificare il Padre. Questo ci è reso possibile  mediante

-         la partecipazione al sacrificio unico del Figlio (nel battesimo e nell’eucaristia)

-         la vita di conversione/penitenza, suscitata e sostenuta in noi dallo Spirito, nella comunione e nella riconciliazione della Chiesa

-         la lode e il ringraziamento che facciamo salire al Padre a nome nostro e di tutto il creato.

Con l’invocazione “manifestati santo tra di noi”, chiediamo a Dio nostro Padre di poter corrispondere alla sua intenzione ed azione santificatrice, consapevoli di entrare, in questo modo, in un dialogo di grazia che non avrà termine se non alla chiusura della nostra giornata terrena.

La nostra richiesta è motivata anche dalla coscienza della nostra fragilità di fronte alla tentazione e a quel peccato che, secondo un’espressione biblica, è sempre “accovacciato alla nostra porta” (cf. Gen 4,7). Il cammino di santità - non c’è bisogno di ricordarlo - è e sarà sempre accompagnato da prove e difficoltà, e da tentazioni che mirano a farci perdere la strada.

 

Silenzio di Dio?

 

Una di queste prove è certamente quella che, solitamente, viene indicata con l’espressione “silenzio di Dio”. Espressione suggestiva, ma altrettanto difficile da esplicare.

In questi ultimi tempi ritroviamo i due termini, silenzio e Dio, frequentemente accostati l’uno all’altro. Ricordiamo, ad esempio, quanto si scrisse sulla grande stampa in occasione della visita di papa Benedetto ad Auschwitz, dopo il suo accorato discorso, nel quale emergeva l’invocazione: “Perché, Signore, hai taciuto? … Dov’era Dio in quei giorni?”. Ricordiamo pure le reazioni che fecero seguito (sempre sui mass media, i quali non perdono certo occasione per straparlare di cose di fede), alle “rivelazioni” sulla “notte oscura della fede” della beata Madre Teresa. In entrambi i casi, fu occasione ghiotta, specie per i laicisti nostrani, per ribadire che il Dio dei cristiani è muto e si disinteressa della nostra umanità, poiché, in fondo, non esiste (e dunque, i credenti o sono cretini, oppure fingono soltanto che egli esista…). Ma fu anche occasione, per i credenti, per ribadire che il silenzio di Dio fa parte integrante della fede di ogni figlio di Abramo…

Io mi chiedo (e vi chiedo): il nostro Dio Tre volte Santo è realmente un Dio silenzioso? O piuttosto è un Dio allo stesso tempo Silenzio e Parola? È importante chiarire ciò, poiché, in quest’ultimo caso, dovremmo parlare prima di tutto e fondamentalmente di silenzio in Dio.

 

Desiderio di Dio

 

Chi parla di silenzio di Dio si aggancia istintivamente all’attesa dell’uomo di avere di fronte a sé un Dio visibile, palpabile e che, massimamente, non deluda la qualifica di “onnipotente” che gli abbiamo attribuito.

Il desiderio di vedere e di sentire Dio accompagna da sempre l’uomo. Proprio perché sospinti da questo desiderio gli israeliti, durante l’esodo, si fecero un vitello d’oro (Es 32). Volevano assicurare un volto, una base visibile a quel Dio che nessuno poteva vedere e dal nome impronunciabile che li aveva liberati dalla schiavitù egiziana.

Anche a noi accade di dare un volto a Dio, e poi gli parliamo e diciamo di “sentirlo”… senza renderci conto che stiamo solo ripetendo ciò che fecero gli israeliti nel Sinai. Ci siamo creati il nostro “vitello d’oro” mettendo insieme tutte le informazioni che la nostra cultura moderna ci offre su come debba essere un dio. Poi, pieni di santo orgoglio diciamo: “Dio è così”. Ma è soltanto un idolo, è un dio che appartiene alla cultura deista moderna, una maschera che, talvolta, i cristiani stessi pongono sul santo volto del “Padre del nostro Signore Gesù Cristo” (cf. Quando dici “Dio”, pp. 15-26.69-76).

Quando poi, dando seguito a quelle suggestioni idolatriche, si parla di “silenzio di Dio”, si arriva ad attribuire a questa espressione significati che con il Dio della fede non hanno nulla a che vedere. E così non si finisce più di arrovellarsi il cervello con gli interrogativi: “Perché non interviene? Dov’era, dunque?”…

È ora che noi cristiani ci liberiamo di quelle immagini idolatriche di Dio, di quei vitelli d’oro che luccicano della modernità della cultura, ma non della lucentezza della fede…

Colui che accetta la santità trascendente di Dio e rifiuta di costruirsi il proprio vitello d’oro, colui che sa resistere anche una vita intera di fronte al silenzio di Dio, di quel Dio che rifiuta le nostre convocazioni ad apparire, a farsi sentire, a parlare, a mostrarsi onnipotente, questo credente potrà fare un’esperienza incomparabile: scoprire che il silenzio ha più di un volto e che Dio è luce, è pace, è gioia ed è, soprattutto, libertà.

 

Il lato oscuro del silenzio

 

La frustrazione che insorge nell’animo umano a causa di un dio che si mantiene muto e lontano di fronte alle nostre convocazioni, trova nella esperienza negativa del silenzio una delle sue cause più importanti.

Anche il silenzio, lo sappiamo bene, ha il suo lato oscuro. È il silenzio-assenza.

Ciò che colpisce negativamente del silenzio è la sensazione del vuoto che lo accompagna, è l’angoscia del nulla che esso impone. Abbiamo sperimentato, penso tutti, questo lato negativo: è il silenzio della passività, della costrizione, dell’ostilità, della codardia. «Nessun maestro», scrive E. Wiesel, «mi aveva avvisato che il silenzio poteva essere nefasto, che poteva condurre l’uomo a mentire, a tradire, che poteva frantumare e spezzare l’uomo invece di cementarlo. Nessun maestro mi aveva detto che il silenzio poteva diventare una prigione». Per molti, il silenzio non è più una finestra sull’infinito di Dio, ma solo un fiore del male che non porta più al cuore parole piene. Del silenzio, si è scritto, non è ormai solo l’uomo ad aver paura, ma anche Dio. «Io non sapevo», fa dire Wiesel a un suo personaggio, «che si potesse morire di silenzio, come si muore di dolore, di fatica, di fame, di stanchezza, di malattia o d’amore. E capii perché Dio avesse fatto l’uomo a sua immagine conferendogli il diritto e il potere di esprimere la propria gioia e la propria angoscia. Dio aveva paura del silenzio, anche Lui».

E dunque, il silenzio può indurre ad escludere l’altro, può essere la nebbia che nasconde gli egoismi e i piccoli mondi che ciascuno si ritaglia, la voce stridula dell’orgoglio, dell’incomprensione, del giudizio, del rifiuto, della negazione, dell’isolamento e della condanna.

A partire da questa esperienza di negatività, è possibile arrivare ad immaginare che anche Dio si sia chiuso in questa assenza. Dopo di che, non sappiamo più che pensare, o dove volgere lo sguardo.

Ecco il pantano in cui sprofondano gli idolatri deisti e gli agnostici del nostro tempo.

Non sono pochi, infatti, gli uomini del nostro tempo, i quali, specialmente dopo la tragedia dell’Olocausto, interpretano il silenzio di Dio secondo quest’ottica negativa. Avvertono e pensano Dio come muto e assente: un dio lontano al quale non importa nulla di noi, un dio che ci lascia in balia delle forze del male. Questo è un dio troppo simile a quello che hanno costruito Caino e, al suo seguito, tutti quegli uomini che hanno condannato al silenzio il Creatore, per essere essi il dio di sé. Un dio muto dal quale essi continuano a fuggire pieni di paura, pronti a riempire il suo silenzio con il chiasso delle loro concrete e redditizie occupazioni. Per fortuna, questo dio ha una sola, unica!, scusante: quella di non esistere (cf. Quando dici “Dio”, p. 44).

 

Il silenzio in Dio

 

Se invece di rivolgerci alla bella statuetta razionale che abbiamo costruito come immagine di Dio, e ci rifiutiamo di imitare ciò che fece Michelangelo di fronte al Mosè, a capolavoro ultimato (secondo la leggenda prese un martello e glielo scagliò contro, gridando: “Perché non parli?), ma ci rivolgiamo al Dio che ha suscitato in noi la fede, allora faremo una scoperta gioiosa: che, certo, Dio è Silenzio, ma è anche Parola.

Abbiamo ascoltato il racconto di Elia nella grotta dell’Oreb: Dio si fa trovare non nel frastuono, ma nel “mormorio di un silenzio che svanisce” (M. Buber, citato in C. M. Martini, Il Dio vivente, Casale Monferrato – Milano 1990, p. 99).

 

«Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco, sentì una voce che gli diceva: “Che fai qui, Elia?”» (1Re 19,12-13).

 

Allo stesso tempo, Dio afferma di mandare a noi la propria Parola vivente:

 

«Come infatti la pioggia e la neve

scendono dal cielo e non vi ritornano

senza avere irrigato la terra,

senza averla fecondata e fatta germogliare,

perché dia il seme al seminatore

e pane da mangiare,

così sarà della Parola

uscita dalla mia bocca:

non ritornerà a me senza effetto,

senza aver operato ciò che desidero

e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata».

(Isaia 55,10-11).

 

Silenzio e Parola, in Dio, non sono qualità; egli non è semplicemente loquace o muto a seconda delle circostanze. Parola e silenzio fanno parte del suo essere. Come dire: Dio, in sé, è Silenzio ed è Parola. Ed è proprio questa Parola che ci fa scoprire che il Silenzio in Dio non è una qualità, e quindi non può essere interpretato come mutismo o lontananza o assenza.

A questa comprensione ci orienta l’evangelista Giovanni, quando scrive nel suo Vangelo che: “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”. Il Figlio di Dio, cioè quel Gesù che egli ha conosciuto e di cui ha sperimentato la confidenza, è Parola (Logos, Verbum, Verbo). Ora, nel nostro sistema di relazioni, la parola è espressione di una realtà: la manifesta e rimanda ad essa. Perciò, presentando il Figlio di Dio come Parola, l’evangelista vuol dirci che è espressione di un Altro – il Padre – il quale sta all’origine della Parola stessa, la manda a noi, lo rende udibile e visibile. Secondo questa logica, Gesù-Parola è il volto del Padre, è la sua manifestazione.

Ma a questo punto ci chiediamo: se il Padre non può essere la Parola, poiché ne sta all’origine, non potremmo identificarlo come Silenzio? Una domanda motivata, questa, dal momento che sant’Ignazio di Antiochia nella Lettera ai Magnesii afferma che “il Verbo nasce dal Silenzio di Dio”.

Se partiamo dalla nostra esperienza, notiamo che silenzio e parola sono uniti da un intimo rapporto, si appartengono, come padre e figlio, persona e volto, amante e amato. Il silenzio genera la parola e questa lo toglie dalla solitudine, lo fa esistere e lo comunica. Il silenzio si nasconde nella parola e questa lo esprime. Inoltre, per avere consistenza, la parola si affida al silenzio, ed esso la rende sensata. La parola, dunque, rimanda al silenzio, lo significa, così che esso appare come il suo senso ultimo.

In Dio, il Silenzio rappresenta il Padre e la Parola il Figlio, uniti nell’amore di uno stesso Spirito.

Essendo Dio essenzialmente Amore (cf. 1Gv 4,8.16), in lui, il Silenzio è solamente positivo: è Presenza che ama e crea vita, è amore che tutto abbraccia e tutto salva.

Questo mistero è decisivo per la nostra stessa identità di figli di Dio.

Creandoci a sua immagine e somiglianza, Dio ha posto in noi una traccia della sua sostanza di silenzio e parola. Per un aspetto, dunque, ciascuno di noi è una parola creata che riprende le somiglianze del Figlio di Dio, e, per un altro, è il volto del silenzio di Dio, riflesso della sua paternità in questo mondo.

 

Dato questo nostro naturale rimando al Creatore, possiamo arrivare ad una comprensione di Dio altrimenti impensabile. Se infatti seguiamo il volto luminoso del silenzio, possiamo intuire qualcosa del suo stesso mistero.

Ripensiamo al silenzio evocato dall’immagine della madre che culla il figlio tra le braccia. È il momento magico, conosciuto da coloro che si amano, che non tollera alcun chiasso, alcuna parola inutile. Quando regna l’amore, il silenzio è la parola più forte per dire: «Sono qui con te». Interpretato come espressione della presenza sicura, calma e infinitamente appagante dell’amore, il silenzio di Dio appare come la voce più alta del suo amore. Il suo silenzio parla, dice che Dio è qui e che ci ama. È la via, questa, seguita anche da un grande regista contemporaneo, il polacco Kieslowski. In uno dei suoi film ascoltiamo questo dialogo: «Che cosa è Dio?», un bimbo chiede alla mamma. Questa lo stringe tra le braccia e poi gli chiede: «Che cosa provi?». «Ti voglio bene», risponde il bambino. «Ecco, – conclude la madre – Dio è questo».

In un racconto sufi traspare la stessa intuizione: fu chiesto a un mandorlo: “Parlami di Dio”. E il mandorlo fiorì.

 

Questo silenzio che è amore e vita può aiutare ad avvicinarci alla domanda “cristiana” sul silenzio di Dio, quello che colpisce nel momento drammatico della morte del Figlio di Dio sulla croce. Evento di sgomento, non solo per la Madre e per i discepoli di allora, ma per ogni discepolo di Cristo sino alla fine dei tempi.

A questo punto le spiegazioni possono anche tacere. Può parlare meglio il linguaggio dell’arte, che è quello della madre o del mandorlo…

Più di un artista ha intuito il mistero di quel tragico momento. Dietro il Figlio che muore c’è il Padre che l’accoglie, plasticamente rappresentato, ad es., nella Trinità del Masaccio (chiesa di Santa Maria Novella, Firenze). «Il Padre è presente, non ha abbandonato il Figlio. Tutt’altro. In silenzio, lo presenta al mondo appeso alla croce, per dire: “Ecco a quanto arriva il mio amore per voi!”. Questo suo silenzio è la parola più forte che egli pronuncia sul mondo, sull’uomo e sul Figlio suo. Sembra di ascoltare di nuovo ciò che un giorno Gesù disse: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,16-17)» (cf. Quando dici “Dio”, p. 47).

La croce, con il suo silenzio oscuro che inghiotte il Figlio di Dio, è la parola più possente che il Padre ci rivolge, la parola che smaschera, giudica e distrugge la logica del nostro vecchio mondo di peccato, la logica di chi ragiona in termini di potenza e pensa che Dio “onnipotente” possa fare e strafare; è la parola che entra nelle viscere della nostra sofferenza e della nostra morte per portarvi la vita nuova della risurrezione.

Di fronte a questo mistero di silenzio e di amore anche la nostra domanda dovrà cambiare. Non più: “Dio, dov’eri?”, ma: “Quale amore ha spinto te, nostro Padre, a prendere su di te il nostro Male? Il tuo silenzio ci avvolga e noi sperimenteremo la gioia del tuo Amore”.

 

Fatti voce di ogni creatura

 

Se la santità in Dio è l’espressione più alta della sua trascendenza, del suo Silenzio d’amore, e se questo silenzio è tutt’altro che assenza o distanza, ma il suo modo più pieno d’essere presente ad ogni uomo, allora la nostra risposta alla santità di Dio dovrà percorrere la stessa strada che lui ha percorso per venire incontro a noi, per raggiungerci anche nel nostro abisso di peccato e di morte.

Questa via sarà quella della nostra parola (ciò che noi stessi siamo come creature, come espressione del nostro essere in questo mondo) che si fa silenzio, che raggiunge il nostro mistero profondo di figli di Dio.

Via di santità come cammino verso la pienezza del Padre e come incontro col Figlio, nell’abbraccio d’amore dello Spirito Santo.

Via di santità da percorrere seguendo le orme di qualcuno che ci ha preceduto, seguendo le orme di Francesco, il quale l’ha realizzata unendo i due poli del proprio essere, Dio e creato, in un modo molto semplice: aprendosi al silenzio di Dio con l’adorazione: «Chi se’ tu, o dolcissimo Iddio mio? Che sono io, vilissimo vermine e disutile servo tuo?», e immergendosi nel creato sino a farsi portavoce della lode che da esso sale silenziosamente verso il Creatore: «Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature…».

 

«… E poi bisogna imparare a far silenzio dentro di sé, in profondità, e ad ascoltare il tenue sussurro della creazione. Una volta stavo attraversando un campo di grano, mentre un caldo sole mattutino inondava le spighe rosso-dorate, che si schiudevano vibrando nel silenzio della pianura. Improvvisamente mi arrestai, rapito, per ascoltare. Il mio compagno mi chiese che cosa stesse accadendo. «Ascolta», gli dissi. «Che cosa?, fece lui meravigliato. Non sento niente! ». «Ascolta, ascolta!». Le spighe, ormai mature, si destavano con infiniti crepitii cristallini, come se un fuoco trascorresse fra le stoppie. Nella luce del mattino, le messi cantavano e quella musica tanto dolce, fatta di silenzio, mi incantava. Ero molto giovane, allora. In seguito ho appreso che le musiche più belle sono quelle che giungono a noi dall’altra riva del silenzio» (E. Leclerc, La tenerezza del Padre, Milano 2000, p. 97).

 

 

 

 

 

 

Lettura

 

Rabbi Mardocheo di Kremnitz, figlio di Rabbi Jehiel Michal, raccontava: «Il versetto dei Salmi “La mia bocca dirà la lode del Signore”, mio padre lo pronunziava come un’interrogazione. “Noi ci domandiamo”, mi spiegò, “come può la mia bocca dire la lode del Signore, se i serafini e le schiere celesti tremano e vengon meno davanti alla gloria del suo nome?”. A questo replica la Scrittura: "Ogni carne benedirà il suo santo nome!" Ogni carne, ogni vivente, appunto come carne, è chiamata a lodarlo. Noi vediamo nel “Capitolo del canto” come anche il più minuscolo lombrico gli rivolga un canto. A maggior ragione l’uomo, a cui è data la forza di trovare sempre nuove melodie in gloria del Creatore» (M. Buber, Racconti dei Chassidim, p.195).