OFS Ferrara – Incontro del 20.05.2007 – Santo Spirito

 

 

 

 

 

Sei tu il Cielo di Dio

 

 

Quando Gesù parla di Dio come «Padre», vuol farci comprendere quanto vicino, anzi quanto intimo egli sia a noi stessi; ma, aggiungendo che è «nei cieli», precisa in che misura il suo essere Padre superi quanto possiamo anche soltanto intuire a partire da qualsivoglia esperienza di paternità.

Occorre chiarire quest’ultimo punto.

Anzitutto, non si vuol dire che Dio sia «padre» in modo totalmente diverso rispetto al padre terreno che ci ha dato la vita e ci ha cresciuti, perché affermare la totale diversità della paternità di Dio non avrebbe altro esito che vanificare ogni nostro parlare di Dio come padre; non puoi parlare di ciò che non conosci. Infatti, per parlare del Padre che è «nei cieli», Gesù usa l’immagine di «padre» quale era comunemente ideata nella comprensione dei suoi ascoltatori. Egli vuole aiutarci a capire, non confonderci. Se invece avesse detto che Dio è Padre a modo suo, incomparabile ai nostri padri, come avrebbe potuto rivelarci la paternità di Dio?

C’è da aggiungere, però, che Gesù parla della paternità di Dio in un modo del tutto particolare, potremmo dire unico: pur usando riferimenti alla figura del padre come era compresa nella società del suo tempo, non proietta semplicemente su Dio l’immagine umana di “padre”. Per parlare del Padre attira l’attenzione dei discepoli su se stesso: a partire da sé, egli ci mostra in che modo dobbiamo intendere la paternità di Dio e in che modo dobbiamo considerarci figli di Dio. È lui stesso a guidarci su questa novità, quando dice a Filippo: «Chi vede me vede il Padre».

Perciò, ogni volta che parliamo di Dio occorre tenere presente l’analogia dei nomi che gli attribuiamo. L’analogia ci impedisce di trattare Dio come uno dei tanti «oggetti» della nostra conoscenza. Egli rimane sempre mistero, anche quando possiamo parlare di lui in modo corretto. Il senso al quale ci apre l’espressione «che sei nei cieli» potrebbe essere questo: noi proveniamo tutti da un unico Padre, che è origine e misura di ogni paternità. Ne consegue che la paternità umana è realmente il segno più luminoso che possa rimandare alla paternità di Dio.

Possiamo dunque sentire e pensare Dio come Padre nel pieno rispetto della sua trascendenza: egli rimane per noi pienamente Dio come Padre e pienamente Padre come Dio. E noi ci comprendiamo come figli, poiché da lui tutti veniamo e verso lui siamo tutti in cammino.

 

Francesco unisce in perfetta sintesi i due aspetti, apparentemente contrastanti, di vicinanza e di distanza della paternità di Dio.

 

«Che sei nei cieli: negli angeli e nei santi, e li illumini alla conoscenza, perché tu, Signore, sei luce; li infiammi all’amore, perché tu, Signore, sei amore; poni in loro la tua dimora e li riempi di beatitudine, perché tu, Signore, sei il sommo bene, eterno, dal quale proviene ogni bene e senza il quale non esiste alcun bene» (FF 267).

 

Il santissimo Padre nostro è il Signore che «abita nei cieli». Ed egli spiega: «negli angeli e nei santi». È luce che illumina la mente, è forza d’amore che infiamma il cuore e lo muove a carità, è una grandezza di bene che si insedia nelle sue creature per abitarle e ricolmarle di felicità. Dio Padre abita nei suoi figli e li trasforma nel suo cielo.

Con questa intuizione, Francesco apre una via per introdurci nel mistero della paternità di Dio.

 

Pur abitando nella luce inaccessibile della divinità, il Padre ha voluto entrare in relazione con noi, suoi figli, donandoci la possibilità di incontrarlo e di conoscerlo. Francesco ci orienta a identificare il luogo dell’incontro.

«Che sei nei cieli: negli angeli e nei santi». Francesco interpreta il cielo come lo «spazio» che le creature aprono nel proprio essere, affinché Dio possa abitare in esse, illuminarle con la sua luce, infiammarle col suo amore e colmarle di felicità, sicché, quando Dio viene accolto, queste diventano cielo, paradiso, casa dove egli rimane presente. E santa Chiara, la «prima pianticella» della famiglia francescana, conferma:

 

«Per la grazia di Dio, la più degna delle sue creature, l’anima dell’uomo fedele, è più grande del cielo, poiché i cieli con tutte le altre creature non possono contenere il creatore, mentre la sola anima fedele è sua dimora e sede, e ciò soltanto grazie alla carità...».[1]

 

Il cielo, di cui qui si parla, non è uno spazio fisico, ma una dimensione esistenziale, una particolare relazione che consente a Dio di essere in noi e per noi sommo bene, luce, amore, felicità, e a noi di essere il tempio di Dio, sua dimora e riposo.

Far spazio a Dio deve essere il desiderio e l’impegno primario di ogni credente. «E sempre costruiamo in noi una casa e una dimora permanente a Lui, che è il Signore Dio onni­potente, Padre e Figlio e Spirito Santo».[2] Un’opera nella quale non possiamo cimentarci da soli e non siamo lasciati soli: «È grazia di Dio», dice santa Chiara, intendendo che quello Spirito che il Padre e il Figlio ci hanno donato e che abita in noi si assume il compito di farci diventare «cielo» e «casa» e di ricevere, in noi, il Figlio[3] e il Padre. Siamo dunque i collaboratori dello Spirito nel creare la dimora del Padre in mezzo agli uomini. Francesco prospetta questo modo d’essere a tutti coloro che vogliono seguirlo per condividere la sua proposta di vita evangelica.[4] Esorta ad «avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione»,[5] affinché «interiormente purifica­ti, interiormente illuminati e accesi dal fuoco dello Spi­rito Santo, possiamo seguire le orme del Figlio dilet­to, il Signore nostro Gesù Cristo»[6] e così diventare la dimora di Dio, ad imitazione della sua beatissima Madre e dei santi.[7]

Francesco, poi, amplia questa intuizione e la sviluppa secondo modalità sue, alle quali accenniamo solo di passaggio. L’opera dello Spirito Santo non si limita a «fare spazio» in noi, relegandoci in un ruolo di passività. La sua presenza in noi è decisamente fonte di azione. Francesco la descrive in questi termini: lo stesso Spirito ci trasforma in «sposi, fratelli e madri di Gesù». E spiega: «Siamo sposi, quando nello Spirito Santo l’anima fedele si unisce al Signore nostro Gesù Cristo. Siamo suoi fratelli, quando facciamo la volontà del Padre che è nei cieli. Siamo madri, quando lo portiamo nel nostro cuore e nel nostro corpo per mezzo del divino amore e della pura e sincera coscienza, lo generiamo attraverso il santo operare, che deve risplendere in esempio agli altri». Lo Spirito ci unisce al Figlio e al Padre in un vincolo sponsale di appartenenza e di dono reciproco.[8] Egli opera incessantemente, coinvolgendo noi stessi nella sua attività. Perciò, mentre crea comunione col Padre e col Figlio, lo Spirito suscita comunione anche tra gli uomini: unisce i credenti nell’unità di una sola famiglia, costruisce la Chiesa.

Frutto dell’azione dello Spirito è dunque la Chiesa. Essa può essere identificata come la famiglia dei figli di Dio, la comunione che unisce i «luoghi» in cui Dio si fa presente, la fraternità di tutti i «luoghi» in cui si adora Dio in spirito e verità. Perciò, essa si presenta come tempio di Dio in mezzo agli uomini non solo nella liturgia o nelle manifestazioni della sua vita istituzionale, ma anche e specialmente ogni volta che – in essa o per suo mezzo – i figli di Dio operano per la riconciliazione e la pace, ogni volta che il creato viene salvato e rispettato secondo la sua nativa dignità di dono di Dio per l’intera umanità.

Frutto dell’azione dello Spirito e della presenza di Dio nella nostra vita è anche l’unità, in noi, di essere e di operare. In parole povere, non siamo cristiani solo quando andiamo in chiesa o quando preghiamo nella solitudine della nostra stanza. Preghiera e azione, contemplazione e impegno nelle attività del ministero e nel servizio della carità sono frutto e segno di un’unica operosità di Dio. Non sono due movimenti antagonisti – come talvolta sono stati presentati – avendo essi una medesima sorgente. La storia della nostra fede testimonia che coloro che più si sono spesi per le attività in favore del Regno avevano alla base una profonda interiorità e intimità con il Dio presente nella propria vita. Francesco stesso, da contemplativo qual era, non ha risparmiato energie per passare di luogo in luogo ad annunciare la Parola, o per andare nei territori dei «saraceni» per portarvi il Vangelo, o pacificare le fazioni in lotta, rimuovere le inimicizie e promuovere la riconciliazione tra le persone... Per questa sua unità interiore, è stato anche l’iniziatore di un nuovo rapporto con le creature, basato sulla fraternità e sulla mitezza. Da parte nostra, per la nostra unità interiore, possiamo essere i migliori alleati degli uomini nostri contemporanei.

Anticamente si dipingeva il cristiano come un «Cristoforo», un portatore di Cristo. Noi potremmo riscoprirci come «portatori del Padre». Se manteniamo forte in noi il senso della presenza della paternità di Dio, diventiamo i più fidati compagni di viaggio di ogni uomo, e la comunità cristiana può essere la più sicura collaboratrice di chi ha la responsabilità politica nella costruzione della società. La motivazione appare evidente. Non possiamo tradire il Padre, nel quale abbiamo riposto la nostra fiducia, mentre lo riconosciamo presente in ogni figlio suo.

Guardando poi nel mistero del nostro essere, scopriamo un’altra splendida verità: siamo il «luogo» in cui possiamo sempre tornare per ritrovare il Padre del cielo. Cristo stesso ci mette su questa via: «Quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,6). Entra in quella stanza silenziosa che è il tuo cuore, la tua interiorità più profonda. Qui incontrerai il Padre tuo, e sarà un incontro d’amore e di libertà. E quando tornerai a guardare il mondo, non sarà mai con occhi rapaci, bensì ricolmi di mitezza e di misericordia. Questa è la ricompensa del Padre tuo.

 

 



[1] Chiara d’Assisi, Scritti: FF 2892.

[2] Francesco d’Assisi, Scritti: FF 61.

[3] Cf. ivi: FF 143.

[4] Cf. ivi: FF 61, 178/2, 200.

[5] Ivi: FF 104.

[6] Ivi: FF 233.

[7] Cf. ivi: FF 178/2; 61; 259.

[8] Ivi, FF 178/2. Cf. FF 143.