Non abbandonarci nella tentazione

 

 

 

 

 

e     non abbandonar - ci    nella  tentazione

kaˆ   e„senšgkVj ¹m©j e„j  peirasmÒn,

kai    eisenénkes  emàs  eis  peirasmòn

(Mt 6,13).

 

 

 

 

La sesta domanda del Padre nostro, nella versione corrente di “Non ci indurre in tentazione”, nonostante l’abitudine della recita quotidiana suona stonata alle nostre orecchie. “Non ci indurre” traduce un po’ troppo alla lettera la corrispondente versione latina («et ne nos inducas in tentationem»). Già lungo i secoli sono state proposte diverse interpretazioni. Sant’Ambrogio, ad esempio, suggeriva: «Non permettere che cadiamo nella tentazione»; oggi, la nuova traduzione della CEI recita: «Non abbandonarci nella tenta­zione». Non è nostro compito disquisire sui termini. Di sicuro sappiamo che nell’espres­sione greca “mè eisenénkes emàs eis” è presente l’idea di un “passaggio all’interno di una cosa”, e potrebbe essere tradotto: “non farci entrare dentro” la tentazione. Da ciò, possiamo comprendere il senso della richiesta del Padre nostro: «Fa’ che troviamo la forza di non soccombere alla tentazione – Fa’ che nella prova non siamo sconfitti”.

Poiché la tentazione è una parte importante dell’esperienza cristiana – siamo quotidianamente tentati di contraddire Dio e di vivere senza gli altri o contro gli altri – è dunque necessario capire di che cosa precisamente si tratti.

 

Stando all’insegnamento biblico, le tentazioni sono riconducibili a due raffigurazioni di massima: la tentazione-prova, che mira a saggiare la consistenza di ciò che di buono c’è in noi, e la tentazione-insidia, che mira a farci cadere in preda al male.

Si tratta della tentazione-prova quando l’autore è Dio e il destinatario è l’uomo[1]: Dio saggia l’uomo per far emergere la sua parte migliore; o quando l’autore è l’uomo e il destinatario è un altro uomo[2]: l’uomo invoglia l’altro, oppure lo mette alla prova per saggiarne la fedeltà, l’amicizia.

Si tratta invece della tentazione-insidia quando l’autore è il popolo di Dio (o un gruppo, o singole persone), e il destinatario è Dio, o Cristo[3]; o quando l’autore è il diavolo, (o il mondo, o le “tenebre”), e il destinatario è l’uomo, o Cristo (come nel racconto delle tentazioni). Gen 3,3-19 offre l’esempio più lampante della tentazione che mira a far cadere l’uomo in trappola e a portarlo alla ribellione contro Dio.

 

La tentazione-insidia non viene da Dio. Valga per tutte l’osservazione dell’apostolo Giacomo:

 

Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno. Ciascuno piuttosto è tentato dalle proprie passioni, che lo attraggono e lo seducono; poi le passioni concepiscono e generano il peccato, e il peccato, una volta commesso, produce la morte (Gc 1,13-15).

 

Dio non tenta al male nessuno. Tanto meno ci induce in quella tentazione radicale che mira a scardinare in noi la fede – quella in cui caddero alcuni discepoli nei momenti drammatici del Getsemani e della croce; una tentazione che mette a repentaglio l’essere e l’identità stessa della comunità cristiana, poiché impedisce di credere in Gesù, Cristo e Figlio di Dio. Disgregata la fede in Gesù, la comunità non avrebbe più senso e si dissolverebbe.

 

Chi insidia i nostri passi per portarci alla rovina è colui che chiamiamo il Tentatore, il maligno, il quale, sin dall’inizio dei tempi, trama incessantemente per farci smarrire la strada della nostra ricerca di Dio e allontanarci dalla casa del Padre. Egli tende i propri tranelli sfruttando la nostra umana debolezza e i nostri limiti e attirandoci nella sua prospettiva. Ci suggestiona proponendoci vie più facili per compiere il bene; ma, in realtà, aggroviglia la nostra scala di valori fino a che confondiamo il bene col male e viceversa: ci mette in condizione di credere di fare il bene, quando invece compiamo il male. Diventati schiavi della tentazione, veniamo a trovarci in una situazione di falsità, di capovolgimento dell’ordine stesso delle cose, incapaci più di uscirne.

 

La Bibbia situa la tentazione-insidia in particolare nel tempo mitico delle origini, quel tempo che fonda l’identità di un popolo o di una persona. La ritroviamo, ad esempio, all’indomani della creazione dell’uomo (la tentazione nell’Eden); durante la costituzione di Israele come popolo di Dio (la tentazione del vitello d’oro sul Sinai); all’avvio del ministero pubblico del Figlio di Dio (le tentazioni nel deserto). Questa collocazione negli inizi sta a dire che essa continuerà a ripresentarsi nella storia del popolo e di ogni persona.

 

Il modello per individuare consistenza e senso della tentazione rimane l’esperienza che ne ha fatto Gesù nel deserto, subito dopo il battesimo nel Giordano (cf. Mt 4,1ss; Mc 1,12s; Lc 4,1ss). L’evangelista Marco racconta che «lo Spirito sospinse (Gesù) nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana» (Mc 1,12-13). Il deserto è per eccellenza il luogo della prova e delle scelte, luogo in cui Dio aveva formato il suo popolo e forma ogni uomo. Quaranta è il numero simbolico che richiama gli anni dell’esodo di Israele dall’Egitto; i giorni di Mosè sul Sinai, dove ricevette le “Dieci Parole”; il cammino di Elia verso l’Oreb, dove incontrò Dio…

I racconti evangelici delle tentazioni di Gesù nel deserto mettono in evidenza un aspetto di fondo: il tentatore ha preso di mira non tanto la persona di Gesù, il suo essere Figlio di Dio, quanto il modo di realizzare la sua missione e di essere Messia per il suo popolo. Ha tentato di attirarlo nella trappola dell’autonomia dal Padre come scorciatoia per arrivare “infallibilmente” al successo. Quelle tre tentazioni, inoltre, sono la sintesi di tutte le prove che il Figlio di Dio affronterà lungo l’arco della propria missione – prove concepite ed espresse, di volta in volta, da voci e volti sempre diversi, comprese quelli dei discepoli.

 

-       “Dacci un segno dal cielo”: Mc 8,11-12; Lc 11,16.29; Mt 16,1-4; Gv 2,18…

-       La folla vuole che Gesù sia loro re: Gv 6,15;

-       “Ipocriti, perché mi tentate?”: Mt 22, 18.

-       “Pietro trasse in disparte Gesù e cominciò a protestare…” (Mt 16,22-23), alludendo a un modo diverso, meno tragico per “fare il Messia”. Pietro è ragionevole, umano, ma Gesù lo bolla come “satanico”.

 

Ripercorriamo ora le tre tentazioni nel deserto, seguendo il racconto di Matteo.

 

 

Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,1-4).

 

La tentazione del potere economico. La prima tentazione alla quale Gesù viene sottoposto è la tentazione di realizzare la propria missione di Messia secondo un progetto puramente materiale, seguendo la scorciatoia del benessere economico, una delle esigenze basilari del vivere umano.

Quale uomo di potere o quale politico non capisce che se non riesce a rispondere a questa elementare esigenza non può avere in mano le masse? Il tentatore sembra dire a Gesù: Tu sei il Figlio di Dio ed hai il potere di sfamare te e chiunque abbia fame. Cosa aspetti a servirtene?

Questa via avrebbe condotto Gesù a divenire un “benefattore” dell’umanità affamata, un guaritore capace di eliminare almeno due dei problemi che quotidianamente più assillano l’intera umanità: la fame e le malattie. Ma le parole del tentatore: “Se sei Figlio di Dio, dì che questi sassi diventino pane” sono in realtà un subdolo invito al rifiuto della situazione di disagio e di povertà in cui si trova, e quindi ad agire in modo arbitrario, fuori dalla volontà del Padre suo. In pratica, sono un invito a realizzare il Regno attraverso il potere dei mezzi materiali (economia, finanza, organizzazione, progetti, denaro, armi, ecc).

Gesù gli risponde: “Sta scritto: non di solo pane vive l’uomo…”, affermando, così, che non gli interessa avere in pugno l’umanità, a scapito della sua libertà e della sua dignità. Il Regno che vuole instaurare “non è questione di cibo o bevanda” (Rm 14,17), non è per i crapuloni, o i salutisti, come non lo è per chi vuole manovrare le folle per i propri interessi. A Gesù non interessa altro cibo che fare la volontà del Padre (cf. Gv 4,34), e la salute cui aspira per tutti noi è la pienezza di vita per l’eternità. Se egli sfamerà le folle, sarà soltanto per riaccendere in esse la coscienza di un’altra fame; se guarirà ammalati, sarà per rimandare i sanati al suo potere di guarire la causa di ogni male e di ogni sofferenza. E a tutti dirà: «Non potete servire Dio e la ricchezza» (Mt 6,24).

 

 

Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo» (Mt 4,5-7).

 

La tentazione del potere religioso. La seconda è la tentazione di strumentalizzare l’onnipotenza di Dio – pensata secondo una mentalità puramente mondana – per piegarla al proprio servizio. Il tentatore, che sa bene che di fronte ad un gesto “sovraccarico di mistero non si osa disubbidire” (per dirla con Il Piccolo Principe di Saint-Exupéry), spinge Gesù a realizzare la propria missione di Messia e Figlio di Dio mediante la scorciatoia del prestigio personale, dell’abbagliare le menti mediante gesti clamorosi che facciano immediatamente presa sulla gente, capaci di soggiogare le coscienze e di forzare all’adesione incondizionata ai propri obiettivi.

È la via che conduce alla dedizione assoluta al capo, a piegarsi ai voleri del guru, a suscitare fanatismi… via seguita in particolare dalle sette, da gruppi fanatici e da fondamentalisti di ogni sorta.

Gesù risponde: “Non mettere alla prova”, cioè non sfidare Dio, non tentarlo, poiché egli smaschererà e distruggerà inesorabilmente ogni tuo tentativo di servirti di lui.

Se Gesù avesse ascoltato il tentatore, sarebbe diventato un messia protagonista e vincente, capace di impiantare il regno di Dio con una forza tale da fare impallidire quella del Cesare romano. Ma non avrebbe agito da Figlio di Dio e, in questo modo, avrebbe fallito la sua stessa missione.

Egli reagisce al tentatore come Figlio pienamente obbediente al Padre. Se il Padre suo non può essere tentato da nessuna creatura, tanto meno può esserlo dal Figlio, il quale sa bene che l’uomo, che ha fame di ogni Parola che esce dalla bocca di Dio, lo segue perché soltanto lui ha “parole di vita eterna” (Gv 6,69), anzi, perché lui solo è la prima Parola in assoluto, il Verbo eterno uscito dal seno del Padre.

 

 

Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vattene, Satana! Sta scritto infatti: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto». Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano (Mt 4,9-11).

 

La tentazione del potere politico. La terza è la tentazione di realizzare la propria missione di Messia e Figlio di Dio, rispondendo alle attese di liberazione da parte del popolo di Israele, oppresso dai Romani, attraverso la scorciatoia del potere politico. In pratica, il tentatore gli propone di aderire al progetto politico-religioso degli zeloti, che individuavano nella conquista violenta del potere la via obbligata per poter instaurare il regno di Dio. Giuda era uno di loro.

Il potere è la massima aspirazione dell’uomo, che lo ritiene un bene da conquistare e mantenere a qualsiasi prezzo. Il potere lo fa sentire un dio, gli spalanca porte altrimenti chiuse. Gli consente di disporre della vita, della libertà e dei beni di tutti a proprio piacimento, secondo la propria logica, i propri desideri, le proprie voglie o le proprie bizzarrie. Gli assicura il superamento dei limiti propri e il dominio del mondo.

“Non sei Messia e Figlio di Dio? Tutto sarà tuo”, suggerisce il tentatore. Non un piccolo regno, ma tutte le potenze del mondo. Tutto ai tuoi piedi. Devi solo fare un piccolo gesto. Non ti chiedo di vendere l’anima: inginocchiati solo di fronte a me. Cosa vuoi che sia, a paragone dell’universo piegato ai tuoi ordini? Avrai il potere di disporre di tutti gli umani come meglio ti aggrada. Più nessun rifiuto, più nessuna persecuzione… Avrai la porta aperta a tutto ciò che vuoi fare: vincere la sofferenza, piegare la schiena dei tuoi nemici, imporre i tuoi progetti, disporre delle risorse per realizzarli, fare piazza pulita di tutta la gentaglia che non vuole lavorare, che rema contro, che si dà alla delinquenza… Niente più criminalità, terrorismo, emigrati clandestini, droga, aids…

Ma Gesù non si inginocchia, poiché sa bene che l’idolatria del potere è in realtà rifiuto di Dio stesso. Solo il Padre che è nei cieli va adorato – quel Padre che tutto ha creato e tutto mantiene con la sua provvidenza ed opera per la redenzione di tutti i suoi figli; quel Padre che è l’unico vero garante della libertà dell’uomo. E un giorno dirà: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21).

 

Come nel deserto, anche lungo tutto il suo ministero pubblico Gesù respingerà sistematicamente le stesse tentazioni, rifiuterà di servirsi del Padre per servire lui solo con un’obbedienza perfetta, e tutti noi con un amore senza limiti. Basti qualche esempio:

 

-       “Quello che hai fatto a Gerusalemme, fallo anche qui”

-       “Dio te ne scampi, Signore, ciò non succederà mai. Io darò la mia vita per te”

-       “Venivano a prenderlo per farlo re”: Gv 6,15

-       “Tu sei re?”

-       “Salva te stesso, scendi dalla croce e noi ti crederemo”

-       “Ecco, io sono in mezzo a voi come uno che serve”…

 

Se Cristo avesse dato ascolto ai tentatori che lo invitavano a “salvare se stesso”, a dimostrare di poter scendere dalla croce, avrebbe dato una bella dimostrazione del suo essere Figlio di Dio, e la fede sarebbe diventata più facile per tutti noi, così affamati di prodigi e miracoli, sempre pronti a correre dietro al primo guru che incontriamo, a statue che piangono e ad apparizioni di ogni genere. Tuttavia, sarebbe stata una fede puramente umana, incapace di affidarci veramente a quel Dio che si nasconde nelle tenebre del venerdì santo…

Ma, soprattutto, quel “prodigio” avrebbe avuto un risvolto terribile: ci avrebbe nascosto per sempre il Volto del Padre, poiché proprio nella croce di Cristo noi abbiamo la piena e vera rivelazione di chi è Dio per noi. In effetti, ci avrebbe impedito per sempre di entrare nella luce e nell’amore del Padre nostro che è nei cieli.

Il Figlio di Dio, che «pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Fil 2,6-7), non ha voluto schivare la povertà della nostra condizione umana. Se avesse percorso la via del facile successo, non sarebbe stato né autenticamente uomo, né Figlio di Dio. In ciò si è comportato al contrario del primo uomo, il quale, per voler “essere come Dio”, seguì la via della mancanza di fiducia e del rifiuto del creatore, e così si ritrovò a dover condurre un’esistenza grama e senza sosta esposta alla schiavitù del Male.

 

 

La tentazione della comunità cristiana

 

Le tentazioni di Cristo sono l’esemplificazione di quella tentazione-insidia da cui Cristo mette in guardia i suoi, poiché mira a scardinare in essi la fede. È la tentazione che mette sotto prova non tanto il sapere che Dio c’è («Tu credi che c’è un Dio solo? Fai bene; anche i demòni lo credono e tremano!»: Gc 2,19)[4] e che noi siamo suoi figli, ma il modo per realizzare questa dignità. Il tentatore ci illude di poterla conseguire in modo facile e immediato attraverso una fiducia incondizionata nei nostri mezzi materiali, rifiutando la via della povertà, dell’umiltà e della debolezza della croce. In realtà, egli mira a sradicare da noi quella Parola che sola può ancorarci sulla salda roccia di Cristo.

È questa la tentazione più pericolosa, la tentazione dell’idolatria, da cui chiediamo al Padre di essere liberati. Per smascherarla e vincerla abbiamo soltanto una possibilità: aderire a Cristo mediante la fede, seguirlo mediante l’obbedienza alla sua Parola e affidarci al Padre con la preghiera che Cristo stesso ci ha consegnato. Soltanto in questo modo, come Gesù è uscito vincitore dagli assalti del maligno, anche noi potremo con lui essere vincitori (cf. Am 6: FF 155).

 

Ora, se la tentazione ci spaventa, una certezza ci conforta: Gesù è il “Consolatore”, il nostro difensore. Non solo ha vinto il tentatore per essere pienamente Figlio di Dio a nostro favore, ma ha anche pregato il Padre affinché anche noi possiamo superare le nostre, e lo ha pregato sapendo che il Padre ascolta sempre la sua preghiera (Gv 17,16). Ha chiesto al Padre che la nostra fede non venga meno, poiché di questa fede abbiamo bisogno più delle forze o del coraggio che noi stessi possiamo mettere in campo. Non ci toglie dunque la prova, ma prega perché possiamo superarla. Una volta risorto, poi, effonderà su di noi il suo santo Spirito, “l’altro Consolatore”, che ci accompagnerà ogni istante della nostra vita.

In questo modo, Gesù salva la nostra libertà e la nostra responsabilità di fronte al Male (cf. Lc 22,31-32), ma non ci abbandona a noi stessi.

 

 

Quali vie percorrere?

 

L’esperienza di Gesù ci indica tre campi d’azione.

 

1. Respingere la tentazione di impossessarci di Dio e di tutto ciò che da lui proviene.

È una tentazione alimentata quotidianamente da motivi “concreti” e sostenuta dal desiderio, non sempre egoistico, della giustizia.

Noi vorremmo che il nostro Dio manifestasse la propria onnipotenza, la provvidenza e la bontà, prendendosi cura delle nostre sofferenze e delle necessità che quotidianamente ci assillano… Vorremmo che fosse dispensatore di grazie molto tangibili, sempre pronto a mettere una pezza sulle “crepe” di una creazione che sembra nata sbagliata, incapace di provvedere a un buon ordinamento delle vicende umane… Vorremmo che ci portasse abbondanza di beni (o almeno quanto serve, o quanto basta), vegliasse sulla nostra salute, costantemente minacciata da tante malattie, disgrazie, attentati… Siamo inguaribilmente desiderosi di un dio che ci faccia star bene, sani dal tumore, risvegli dal coma irreversibile, protegga dagli incidenti, restituisca le vittime della violenza agli affetti più cari, faccia ritornare il rapito o il disperso, procuri il lavoro a chi lo cerca disperatamente, o un amore a chi non riesce a rompere il cerchio della propria solitudine…

Ma proprio su queste attese lavora instancabilmente il tentatore.

Trovandoci noi di fronte ad un Dio che sembra non rispondere prontamente ai nostri desideri, egli ha buon gioco a stravolgere il vero volto del nostro Dio e farci plasmare un dio più “vicino”, più “alla mano”, più malleabile, un dio ben disposto a giustificare ogni nostro desiderio, ad assolvere ogni nostra “fragilità”, a perdonare ogni nostra trasgressione… E noi, una volta caduti nella trappola, non tarderemo a sperimentare la vera natura di questo dio fasullo: uno strozzino che ci toglie la libertà, dominandoci col ricatto (ti ascolto se farai questo, se lo meriterai, ecc.), e spingendoci ad asservirci alla sua corte di consiglieri e di intercessori (dai maghi alla vasta schiera dei guaritori e dei santoni, ai guru dell’economia e del guadagno…). Anche nella comunità cristiana potrebbe introdursi questa deformazione idolatrica, quando, ad esempio, perfino la giusta devozione a Maria e ai Santi viene stravolta e strumentalizzata, quasi che essi fossero necessari per “convincere Dio” ad essere “buono con noi” e a soddisfare le nostre richieste!

In che modo respingere questa tentazione?

C’è un modo del tutto particolare, suggerito da san Francesco. Poiché l’uomo fu creato da Dio come “cosa molto buona”, noi apparteniamo alla fonte stessa di ogni bene. Riconoscere questa nostra dignità originale di “essere un bene di Dio”, ci sospinge a restituire al Signore Dio altissimo e sommo tutti i beni e a riconoscere che tutti i beni sono suoi, e ci sprona a rendere grazie di ogni cosa a Lui, dal quale procede ogni bene. «E lo stesso altissimo e sommo, solo vero Dio abbia, e gli siano resi ed egli stesso riceva tutti gli onori e la riverenza, tutte le lodi e le benedizioni, ogni rendimento di grazia e ogni gloria, poiché suo è ogni bene ed Egli solo è buono» (Rnb 17: FF 49).

 

2. Respingere la tentazione di servirci di Dio per i nostri interessi.

Piegare Dio ai nostri fini personali, servirci di lui per il nostro successo è qualcosa che accade più frequentemente di quanto si creda e nelle forme più svariate. Lo ritroviamo dietro la smania di esibire le piazze gremite dai propri fans o dai propri fedeli, tipica di quei predicatori, fondatori di sette, maghi e santoni che imperversano sui mezzi di comunicazione. Essi giudicano il benvolere di Dio nei loro confronti dal numero di partecipanti alla manifestazione. Lo ritroviamo anche nella pretesa di qualcuno di essere i prescelti da Dio per una missione particolare, vantando apparizioni, miracoli e rivelazioni… Che altro fanno, tutti costoro, se non sfruttare per i loro fini inconfessati la brama di sacro o la sete di Dio di tante persone semplici o di tante anime tormentate, desiderose di far parte dei «pochi eletti che si salvano»?

Potremmo ritrovarlo anche in un certo mondo ecclesiastico, quando taluni (pochi? molti?), credendosi i portavoce di Dio, agiscono come se fossero Dio stesso – ma un “dio” pensato a propria immagine e somiglianza… Anche ad essi il tentatore sibila: «Se sei un figlio di Dio buttati». Ed essi si buttano, sicuri che Dio debba mettersi al loro servizio. Sicuri, poiché non soltanto pensano che “dio” debba tenere al proprio buon nome, ma soprattutto perché essi stessi faranno il possibile perché, là dove “dio” non ha successo, riescano le loro analisi della situazione, le loro scelte, i loro progetti pastorali, le loro iniziative di evangelizzazione …

In che modo respingere questa tentazione?

Anzitutto, scegliendo di rinunciare a fondare la nostra vita soltanto di noi stessi, invece che sulla “roccia di Cristo”, specialmente di fronte alle umane fragilità e cattiverie. E poi, sforzandoci di sottomettere al giudizio della croce di Cristo ogni nostra intenzione, progetto e azione. Infine, diventando immagini viventi della misericordia di Dio e dispensatori a misura della sua magnanimità, non certo della nostra ristrettezza di cuore.

 

3. Respingere la tentazione di usare il potere politico per forzare gli eventi, in modo che venga il regno di Dio.

Il potere è la tentazione per eccellenza, il “bene” per il quale siamo disposti a sacrificare tutto, convinti che soltanto chi ha potere può creare, fondare, costruire, elevare, portare a compimento…

Il rischio di questa tentazione è quello di arrivare a costruirci un Dio che giustifichi questa logica terribilmente umana e per nulla divina. Tutto questo ci indurrebbe a identificarci con Dio, a crederlo “dalla nostra parte” (“Gott mit Uns!”), a reclamare per noi stessi il potere di dirigere le cose del mondo in nome di Dio, un potere che nessuno potrebbe mettere in discussione o rifiutare. Qualora ciò accadesse, saremmo in una situazione tragica: penseremmo di avere l’autorizzazione (sempre da Dio e appartenente soltanto a noi) a ricorrere ad ogni mezzo, in primo luogo alla violenza, per spazzare via ostacoli e impedimenti, da qualsiasi parte o a qualsiasi nome si presentassero.

Gesù, rinunciando al potere politico e, dunque, all’arbitrio, allo spadroneggiare violento, alla sopraffazione fonte di sempre nuove ingiustizie, di rancori e di nuove violenze e sofferenza, ci ha insegnato a vivere da fratelli davanti allo stesso Padre, capaci di accogliere quella la Parola che egli stesso ci ha consegnato: «Colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo» (cf. Mt 20, 24-28).

In che modo respingere questa tentazione?

Occorre disfarsi della convinzione che ogni “potere” ci sia dato a nostro esclusivo uso e consumo, della serie: «Dio me lo ha dato, guai a chi lo tocca!». È sempre valida la lezione di Francesco: «Non facciano liti né dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio (cf. 1Pt 2,13)» (Rnb 16: FF 43).

 

 

Non abbandonarci…

 

Un’ultima annotazione. Col Padre nostro non chiediamo al Padre di preservarci dalle prove della vita, quelle prove che egli permette per saggiare la nostra fede, o la verità di noi stessi, o per farci crescere come cristiani adulti, capaci di affrontare le difficoltà che incontriamo nel cammino di santità, nell’annuncio e nella testimonianza evangelica.

San Francesco diceva che queste prove sono vera grazia. Perciò vanno accettate con umiltà e pazienza, persino con riconoscenza, sapendo anche che il Signore non prova mai oltre le nostre capacità ed è sempre pronto a venire incontro alla nostra umana fragilità con il suo Spirito e il suo perdono.

Da parte nostra, dobbiamo essere disposti a ricondurre tutto nella luce della Croce del Signore, a chiedere e ad accogliere l’aiuto del Padre. Questa disponibilità ci renderà liberi interiormente e capaci di rispondere alle grandi domande e alle sfide degli uomini in mezzo ai quali viviamo, e, assieme ad essi, a «restare uomini di angoscia e di stupore, uomini che non si accontentano di parole e di idoli, capaci di porre la domanda, fosse anche al prezzo di una certa follia» (O. Clément).

 

 



[1] Cf. ad esempio: Tb 12,13; Gdt 8,27; 1Cr 29,17; Sap 3,5-6; Pr 17,3; cf. inoltre le grandi vicende di Abramo, Tobia, Giobbe… Sir 2,1; 34,9-10; cf. anche Gc 1,2-3; At 20,19; 1Pt 1,6-7…

[2] Cf. ad esempio: 1Re 10,1-2; Sir 6,7; 13,11.

[3] Cf. ad esempio: Es 16,23; 17,1-7; Nm 14,22-23; Sal 95,8-9; Sap 1,1-2.

[4] Cf. san Francesco: «… un solo demonio seppe delle realtà celesti e ora sa di quelle terrene più di tutti gli uomini» (Am 5: FF 154). Il sapere non converte!