OFS Santo Spirito – Incontro del 9.01.2011

 

Appunti di p. Carlo Dallari

 

 

 

4. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,

perché saranno saziati

 

 

 

     Beati quelli che desiderano ardentemente la volontà di Dio per sé e per gli altri, perché Dio li sazierà alla sua mensa.

 

 

Su questa beatitudine l’evangelista Luca è più conciso: «Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati» (6,21); Matteo, invece, allarga l’orizzonte su chi ha fame e sete di giustizia. Tuttavia, le due versioni sono intrinsecamente unite.

 

Fame e sete. Chi soffre la fame è doppiamente vittima: sia perché privato di ciò che è il naturale sostentamento per ogni essere vivente, sia perché paga sulla propria pelle, e dunque ingiustamente, le ingordigie di coloro che si accaparrano le risorse destinate alla comunità. Agli affamati di pane e di giustizia Gesù annuncia il suo vangelo: voi siete beati ora, perché la vostra doppia fame riceverà giustizia!

Avvertiamo d’istinto il paradosso, poiché è come se egli dicesse: “La felicità consiste nell’avere fame, ora!”, parole che potrebbero provocare indignazione e rifiuto in un mondo alle prese con uno spettro che porta alla morte milioni di persone. Eppure, a ben guardare, la Parola di Gesù è l’unica che possa infondere speranza a tanti infelici e abbia il potere di far muovere gli uomini ad affrontare un male così grande.

Il suo messaggio è semplice: sappiate con sicurezza che questa fame non è eterna: avrete la soddisfazione di vederla cancellata. Un annuncio che è tutt’altro che una presa in giro, un modo per illudere poveri e sfruttati, spingerli a “stare calmi” e a non protestare. Mira invece a portare speranza e gioia là dove la disperazione regna sovrana. La sua particolarità è che parte da una prospettiva opposta rispetto a quella da cui si muovono le promesse degli uomini. Mentre, infatti, costoro presentano la felicità come meta suprema, il risultato di sforzi, perfino come un prodotto confezionato ed acquistabile, Gesù si pone sul versante del senso ultimo della vita. Non il risultato dell’agire, ma il suo modo è importante. È il come si fanno le cose che è importante, poiché entra in gioco lo spirito. Se facessi dipendere la mia felicità dal risultato raggiunto nell’accumulare bene, sarei costantemente deluso anche se avessi conquistato il mondo intero.

Detto con un’immagine: la felicità è il piacere di tirare la freccia, non il bersaglio da raggiungere; è il modo di viaggiare, non la stazione di arrivo. Fin che non cambiamo modo di interpretare la felicità, ci condanniamo ad essere sistematicamente infelici.

Questa beatitudine viene bene illustrata dalla parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (Lc 16,19-31). In essa Gesù insegna che il ricco non può essere felice, né attualmente, né nel futuro, per una ragione semplice: si lascia catturare e imprigionare dai propri beni. Ne fa un idolo da adorare e servire con tutto se stesso. Perciò diventa cieco e sordo: non vede più i poveri attorno a sé e, a differenza di Zaccheo (Lc 19,1ss), non avverte più in sé la fame e la sete della giustizia che la Parola di Dio tenta costantemente di accendere nel suo cuore. È un infelice che si rinchiude sempre più nella propria infelicità: con l’accumulo dei beni crede di aver centrato il bersaglio della vita, si crede vincitore e festeggia, ma… in effetti ha sbagliato bersaglio, poiché la ricchezza che possiede si manifesta intrinsecamente disonesta (nel senso che non riesce a mantenere la felicità che promette, perché la morte spazza via tutto), mentre Dio accoglie tra le sue braccia non lui, ma quel povero Lazzaro, di cui non si era neppure accorto, pur seduto ai piedi della sua stessa tavola.

Felicità, dunque, è nel modo di vivere: fin che avvertiamo la fame di pane e di giustizia, possiamo attivarci per creare i presupposti che possano concretizzare il loro superamento. E questo ci riempie l’esistenza ora, questo le dà un senso, questo concretizza la beatitudine di cui Cristo parla.

 

La giustizia. Siamo molto sensibili su questo argomento. Secondo il senso comune, giustizia è la virtù per la quale si «dà a ciascuno il suo» secondo criteri e misure concordate (giustizia distributiva, retributiva, contributiva…), e si è giusti quando intessiamo con gli altri relazioni basate sul rispetto del diritto e della verità. La beatitudine evangelica allude a questo tipo di giustizia? Non pare. Se la felicità dipendesse dal nostro essere giusti a questo modo, basterebbe poco per convincerci dell’impossibilità a raggiungerla. Se pensiamo anche soltanto a quanto siamo ingiusti noi stessi, possiamo ben intuire che ben pochi sarebbe realmente «beato»!

La giustizia di cui parla Cristo appartiene a un’altra dimensione. In Dio, essa è giustizia dettata dall’amore: Dio dona a ciascuno il bene secondo le sue necessità. È la giustizia con cui egli ci fa giusti ai suoi occhi, cioè perdonati e in cammino di conversione e di santità. Perciò, la nostra giustizia è quella che deriva dal fatto di essere in sintonia con questa volontà di Dio. Secondo Matteo, sono coloro che hanno fame e sete di questa giustizia ad essere proclamati beati.

Ciò premesso, il messaggio della beatitudine ora suona così: «Beati quelli che desiderano ardentemente che Dio compia in ciascuno e in tutti la sua la volontà di bene, perché di certo Dio li ascolterà». Poiché Dio vuole il nostro bene, la sua giustizia in noi coincide con la realizzazione di questo stesso bene, coincide con il compimento della sua santa volontà. Beato è dunque chi desidera ardentemente di dire il proprio “sì”, il proprio “eccomi” a Dio, nonostante tutto; di riconoscergli il primato nella propria vita e di comportarsi come il Figlio suo, amando e perdonando sempre. A costoro Gesù annuncia: beati voi che, desiderando questa giustizia, ricercate prima di tutto il regno di Dio, perché riceverete in questa vita il centuplo e, in più, la vita eterna.

 

Il commento di Francesco

 

Francesco non commenta direttamente questa quarta beatitudine. È possibile, tuttavia, rileggere alcune sue riflessioni come attuazioni di questa stessa beatitudine.

Sembra suo pensiero costante che anche il povero e l’affamato possano ricercare la giustizia non attraverso la violenza, bensì attraverso la speranza e la pace interiore. Questo è possibile anzitutto attraverso un preciso processo spirituale: non lasciarsi catturare dalla propria situazione di fame, di disagio, di emarginazione (vedi il racconto della vera letizia!) come se fosse il male assoluto. Il risentimento e la collera impedirebbe di alzare lo sguardo e di sperare; impedirebbero l’insorgere della gioia.

Ora, proprio questo “modo dello spirito” sprona al rifiuto di farsi ingabbiare dal male, mette in movimento, alla ricerca di tutti i mezzi per vincere questa situazione di ingiustizia… con la consapevolezza che avere nei cieli un Padre che ascolta il nostro grido impedisce di sederci sul ciglio della strada e di lasciarci morire. Anche se nessuno ascoltasse, il nostro Giudice, ad ogni modo, non ci abbandonerà.

 

«Beati quelli ke ‘l sosterrano [le infermità e le tribolazioni] in pace,

ka da Te, Altissimo, sirano incoronati

… beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,

ka la morte secunda no ‘l farrà male» (Cant: FF 263)

 

     Anche la morte, l’ultima, suprema ingiustizia, non avrà la parola definitiva sulla vita dell’uomo e del mondo. Colui che è stato definito «il Giusto» per eccellenza, Cristo, darà a chi spera in lui, la pienezza della vita.

 

«Beato quel servo che sempre avrà tenuto prigioniero un tale nemico [il proprio corpo] consegnato in suo potere e sapientemente si difenderà da lui; poiché, finché farà questo, nessun altro nemico visibile o invisibile gli potrà nuocere» (Am 10: FF 159).

 

     Può sembrare strana e molto lontana dalla nostra mentalità questa espressione di san Francesco. Eppure, nessuna epoca più della nostra ne può afferrare l’attualità. Abbiamo elevato il nostro corpo, con le sue esigenze, a idolo cui servire senza discussioni. Siamo schiavi del fitness, del salutismo, della vitalità esasperata, del piacere ad ogni costo… Tuttavia non possiamo cancellare la sorda sensazione d’essere schiavi, alla mercè di una fame che sentiamo non autentica, chiusi in una situazione senza uscita. Non converrebbe, allora, ritornare a provare effettivamente fame di pane e di giustizia?... La felicità non è colpire il bersaglio, ma tirare la freccia!...

 

«Quanto sono beati e benedetti quelli che amano il Signore e fanno così come il Signore stesso dice nel Vangelo: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta la mente, e il prossimo tuo come te stesso» (2Lf II: FF 186)

«Come sono beati e benedetti quelli e quelle [= coloro che amano il Signore, amano il prossimo, ricevono il Cristo e fanno penitenza] e perseverano in esse, perché riposerà su di essi lo Spirito del Signore, e farà presso di loro la sua abitazione e dimora» (FF 178/2)

 

     Questi due testi di san Francesco fanno emergere il senso profondo della quarta beatitudine. Chi vive il comandamento dell’amore si mantiene in una costante fame e sete di giustizia e si attiva perché, attraverso se stesso, Dio continui ad operare per il bene di tutti i propri figli. Chi ama il povero e soccorre l’affamato e le vittima di ingiustizia entrando lui stesso nella povertà e nella fame, agisce come Cristo, compie la più grande giustizia e si abbevera alla fonte della felicità, poiché dei poveri è il regno dei cieli.

 

Sono dunque finiti i tempi delle ideologie cieche, che non vedevano che una speranza messa nel cuore dell’oppresso è l’inizio di una rivoluzione di bene che nessuno può fermare. E Cristo la mette questa speranza nel cuore! E non pianta soltanto speranza, vi mette se stesso. Allora, la sua Parola è un grido che raccoglie tutte le grida degli affamati del mondo per liberarle e farle salire al Padre. E Gesù, povero con i poveri, voce della loro voce, Giusto contro ogni ingiustizia, diventa il Figlio amato che il Padre ascolta prontamente: «Padre, “so che mi dai sempre ascolto”» (Gv 11,42), egli pregava; e, un giorno, non aveva forse detto che: «Dio farà giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui» (cf. Lc 18,7)?