OFS Santo Spirito – Incontro del 7.11.2010

 

Appunti di p. Carlo Dallari

 

 

 

La via di Francesco

 

 

Francesco accosta la beatitudine, la letizia, alla speranza: «Tu sei gaudio e letizia, Tu sei nostra speranza» esclama nelle Lodi di Dio Altissimo, quasi a voler suggerire che la vera letizia, che è gioia e pace con se stessi, con gli uomini e con le creature, e con Dio, è la preparazione più sicura alla speranza, poiché «per sperare bisogna essere molto felici» (Péguy).

Accosta pure la povertà alla beatitudine: «Dove è povertà con letizia, ivi non è cupidigia né avarizia» (Am 27: FF 177), come per dire che non si può essere beati, se non si è poveri secondo Dio. Sembra dunque che egli interpreti la povertà come la condizione previa per giungere alla letizia e, da qui, aprirsi a quella speranza che è vero anticipo della felicità eterna del regno di Dio.

Sono molti i passi dei suoi Scritti, o gli episodi narrati dai suoi biografi, che evocano questa «via della beatitudine». Nella nostra riflessione ci soffermeremo solamente sui passi in cui Francesco vi allude richiamando, commentando o ampliando le beatitudini evangeliche.

 

La prima beatitudine di Gesù

 

1. «Beati i poveri in spirito,

perché di essi è il regno dei cieli».

     Beati coloro che si fanno poveri, confidando solo in Dio, perché ad essi è riservato il suo regno.

 

Questa prima beatitudine contiene tutte le altre che seguono. Povero, infatti,

 

-         è colui che sceglie una vita sobria, mantiene un giusto rapporto con le creature, anzi si fa servo di ogni creatura per amore di Dio, e passa da questo mondo quasi «rubando di sotterfugio» il necessario per vivere, ciò che il mondo considererebbe invece come sua proprietà intoccabile…

-         è colui che piange il proprio peccato e il male dell’umanità

-         è colui che non confida in se stesso e ama che sia Dio a renderlo giusto: è colui che prende coscienza con gioia e gratitudine che tutto è grazia e che, di conseguenza, non ha la necessità di «comprare» Dio con le proprie azioni

-         è colui che sa perdonare settanta volte sette

-         Povero è colui che si mantiene limpido nella sua intenzione di orientare tutto a Dio

-         è colui che costruisce la convivenza umana sulla pace, sulla giustizia, sulla fraternità, rinunciando alla presa violenta sul fratello

-         è colui che accetta umilmente anche la persecuzione, senza per questo giocare al martire, poiché non appartiene a sé ma a Cristo

-         è colui che, amando tutti, accoglie ognuno con cordialità e cortesia, e canta le lodi di Dio.

 

Il commento di Francesco

 

«Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli. Ci sono molti che, applicandosi insistentemente a preghiere e occupazioni, fanno molte astinenze e mortificazioni corporali, ma per una sola parola che sembri ingiuria verso la loro persona, o per qualche cosa che venga loro tolta, scandalizzati, subito si irritano. Questi non sono poveri in spirito, poiché chi è veramente povero in spirito odia se stesso e ama quelli che lo percuotono sulla guancia» (Am 14: FF 163)

 

     Sono beati coloro che non si appropriano di nulla, ma soprattutto sanno distaccarsi dal proprio Io.

 

«Quel servo di Dio che non si adira né si turba per alcunché, davvero vive senza nulla di proprio. Ed è beato colui al quale non rimane nulla, perché rende a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Am 11: FF 160).

 

     Sono beati coloro che non avendo più nulla su cui poggiare la propria sicurezza, possono mettersi nella mano del Signore, sola nostra speranza.

 

«Beato il servo che accumula nel tesoro del cielo i beni che il Signore gli mostra e non brama di manifestarli agli uomini in vista di una ricompensa, poiché lo stesso Altissimo manifesterà le sue opere a chiunque gli piacerà» (Am 28: FF 178).

 

     Sono beati coloro che non si appropriano neppure dei beni spirituali, lasciando a Dio la piena libertà di operare per il bene di tutti.

 

«Beato il servo che restituisce tutti i beni al Signore Iddio, perché chi riterrà qualche cosa per sé, nasconde dentro di sé il denaro del Signore suo Dio, e gli sarà tolto ciò che credeva di possedere» (Am 18: FF 168)

 

     Sono beati coloro che sanno restituire a Dio, fonte di ogni bene, se stessi, ciò che sono, il bene che hanno e quello che fanno.  

 

«Dice il Profeta: “Poiché mangerai del la­voro delle tue mani, sei felice e ti andrà bene”; e l’Apostolo: “Chi non vuol lavorare, non mangi”; e: “Ciascuno riman­ga in quell’arte e in quella professione nella quale fu chiama­to”. E in cambio del lavoro possano ricevere tutto le cose necessarie, eccetto il denaro» (Rnb 7: FF 24).

 

     Sono beati coloro che, da veri poveri, tutto restituiscono al Padre mediante il lavoro delle proprie mani e il cuore aperto alla sua generosità.

 

 

 

 

Secondo san Bonaventura, la povertà è il modo in cui la conversione/penitenza evangelica prende volto e corpo nella nostra vita personale e di fraternità. Una povertà non ricercata come fine a se stessa, ma come «segno e strumento» di quel cambiamento interiore, in forza del quale stacchiamo il nostro spirito dalle cose del mondo, dalle creature e lo rivolgiamo a Dio.

Chi è il «povero in Spirito»?

Non immediatamente il povero secondo il fisco. Che il messaggio evangelico abbia un’enorme valenza sociale è certo; tuttavia, è prima di tutto un messaggio religioso diretto ai discepoli di Cristo, ai quali parla del loro rapporto con Dio. Perciò, dichiarando beati i poveri, Cristo aggiunge la qualifica “secondo lo spirito”. Egli vuole che abitiamo nella fede, non nella miseria.

Povero in Spirito è, anzitutto, Cristo stesso. È povero, poiché ha accettato sino alle estreme conseguenze il proprio essere Figlio; ha scelto la povertà come la condizione umana che maggiormente esprime la propria dipendenza dal Padre e la propria volontà di essere totalmente dedito al suo servizio. Nella povertà ha potuto vivere pienamente da Figlio di Dio nella nostra umanità e radicalmente figlio dell’uomo nella sua divinità.

Povero in Spirito è anche l’uomo che, abbracciando con fiducia la condizione del Figlio di Dio, si offre a lui come sua propria dimora, affinché possa continuare la propria presenza redentrice nella nostra umanità. Chi vive da «figlio nel Figlio» realmente non appartiene più a se stesso, non è più proprietario di nulla: né del suo Dio, né della verità, né delle creature. Tuttavia, appartenendo al Tutto, possiede tutto. («Nihil habentes, sed omnia possidentes», dice san Paolo, cui fa eco sant’Agostino: «Chi ha Dio, ha tutto»). E possedendo tutto, può donare tutto al prossimo.

La vita e l’insegnamento di Cristo sulla povertà sono un chiaro invito a superare ogni retorica sulla povertà stessa. In sé, essa non è il male assoluto e neppure uno stato privilegiato: pur avendola scelta, Cristo non l’ha mai benedetta, tanto meno imposta. Perciò dobbiamo stare attenti a non ricadere nel pauperismo dei secoli passati. Se non è una realtà negativa, potrebbe comunque diventarlo, qualora, ad esempio, sfociasse nella durezza d’animo, nell’egoismo, o nella violenza… Come anche potrebbe divenire una situazione positiva, qualora venisse scelta volontariamente per essere più liberi, più disponibili a seguire Cristo, più attenti a non far pesare sui poveri la loro condizione…

Ne segue che anche la ricchezza può essere considerata con più equilibrio. Essa può essere un male se cattura, lega a sé, rendendo schiavi delle sue leggi, delle sue esigenze e della sua logica di sfruttamento, di egoismo e di violenza. Ma può anche divenire un bene, quando ci si mantenesse da essa distaccati, e la si finalizzasse al servizio del Regno. Secondo il vangelo, un saggio amministratore utilizza tutto per il suo padrone, secondo quanto da lui ricevuto; ma a lui di tutto rende conto e tutto restituisce.

Alla base di questa valutazione sta l’insegnamento di Gesù. Leggiamo in Luca:

 

«Fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne. Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?» (Lc 16,9-12).

 

Gesù chiama «disonesta» la ricchezza. Forse perché spesso è frutto di ingiustizia? o perché è strumento di oppressione? La ragione è più profonda: perché è ingannevole. Promette e non mantiene, seduce l’uomo, poi lo abbandona e lo delude. Essa, perciò, è un bene di poco conto.

Egli parla anche di «fedeltà». A chi? Di certo al Padre, che è il sommo Bene e dal quale proviene ogni bene. Ora, Gesù dice: se tu sei fedele nella ricchezza, che è un bene da poco ed è «disonesto», sarai fedele anche nel vero bene.

Ma in che cosa consiste la fedeltà nei beni di poco conto? Consiste nel fatto che tu non ti lasci catturare da essi e li usi per ciò che sono. Così facendo, sei fedele a colui che te li dati in amministrazione e gli dimostri che potrai essergli fedele in responsabilità maggiori.

Proprio come è accaduto con san Francesco: fedele al senso della ricchezza paterna, quando non ne rimaneva schiavo; fedele negli splendidi doni di Dio a partire dalla conversione, quando scelse di seguire Cristo povero e crocefisso. Come non si era appropriato dei primi, così farà anche con i secondi; tutto egli ha restituito al Padre, assieme alla propria lode e alla propria adorazione.

Ora comprendiamo la fonte del suo insegnamento, quale abbiamo ascoltato dalle Ammonizioni 11,18,28 sopra citate.