OFS Ferrara – Incontro del 27.05.2012 – Corpus Domini

 

Appunti di p. Carlo Dallari

 

 

 

 

La parabola del perdono

 

 

La parabola del padre misericordioso (Lc 15,11-32) è la «magna charta» del cristianesimo, nel senso che, in essa Gesù esprime il modo in cui intende il volto di Dio, Padre suo e Padre nostro. Perciò, tutto ciò che pensiamo e diciamo su Dio dovrà essere messo a confronto con l’insegnamento di questa parabola.

Gesù utilizza l’immagine di un padre palestinese di quel tempo. Questo è sufficiente per affermare non solo che Gesù «ci mostra chi è padre e come è un vero padre, così che possiamo intuire la vera paternità, imparare anche la vera paternità» (Benedetto XVI), ma anche che nella figura paterna egli vede un rimando alla paternità di Dio. Questo rimando si sviluppa sul piano dell’analogia, della somiglianza, poiché il Padre, “quello del Cielo”, non è e non può essere semplicemente identico a uno qualsiasi dei nostri papà, fosse pure il migliore.

Seguiamo gli elementi principali che Gesù mette in campo per fare risaltare l’immagine paterna del nostro Dio e la sua capacità di perdono.

 

Il confronto del padre col figlio minore

 

Il più giovane dei due figli reclama la parte di eredità che gli spetta (1/3 del patrimonio non terriero). Il padre non fa obiezioni, poiché il figlio chiede qualcosa che il diritto gli riconosce. Un figlio ha il diritto di partire, deve partire e, se lo fa per opposizione, i genitori devono comunque rispettare la sua decisione e ammettere il silenzio che viene loro contrapposto. Il padre, dunque, tiene in considerazione la scelta del figlio, pur sapendo che forse non lo vedrà più. Non lo minaccia, non gli impone d’autorità il proprio volere di conservare integro il patrimonio familiare. Dimostra di lasciare al figlio l’opportunità di un’esperienza che – forse – lo farà crescere, scommettendo tutto sull’amore che ha, giorno per giorno, riversato su di lui. Non lo sentiamo ripetere, lagnandosi: «Cosa ho fatto di male per meritare questo? In che cosa ho sbagliato?», e neppure sibilare iroso: «Gli faccio vedere io chi comanda, qui...».

Così, questo figlio parte in cerca di lavoro e di fortuna, per costruirsi un’esistenza sicura. Proprio come molti giovani palestinesi del tempo. Forse come era avvenuto per Giuseppe.

Ma le sue buone intenzioni – se ne aveva – sono ben presto dimenticate. Svincolato dai legami familiari, si dà alla pazza gioia, dilapidando l’eredità paterna. È questo il «peccato contro il padre» di cui parla la parabola, in quanto tradimento del lavoro e delle fatiche del padre. Non la perde per sfortuna, ma in malo modo: con le donne straniere (il pericolo n° 1 per l’israelita, poiché erano la via più facile per cadere nell’idolatria, considerata, essa stessa, una “prostituzione”. ).

Con la fame arriva il degrado morale. Compie, infatti, un errore ancora più grande: invece di chiedere aiuto ai suoi fratelli di religione (per vergogna?), si rivolge agli stranieri (pagani). Questo passo assume il significato di un allontanamento dalla fede di Israele. Come potrebbe osservare la legge al servizio di un pagano? Questo è il «peccato contro il cielo», di cui si dice nella parabola.

Arriva persino ad abbassarsi a livello dei porci, gli animali immondi, ai quali contende le carrube.

Ma anche al peggio c’è un limite, e quando si tocca il fondo, si può soltanto risalire. Ed ecco che il giovane comincia a fare un po’ di calcoli. Sa che i servi di suo padre sono trattati molto meglio di quanto lui stesso non lo sia in quel momento. Perciò, considera che gli conviene tornare a casa. Si confronta, dunque, non con il padre, ma con i servi. Non è un figlio pentito, ma un calcolatore. Vuol tornare da servo per poter sfamarsi.

Si prepara anche il discorsetto da snocciolare al padre, per convincerlo ad assumerlo come garzone. È pentito di aver abbandonato la casa paterna? La parabola non lo dice. C’è da chiedersi: se avesse ancora soldi da spendere, tornerebbe indietro? Direi di no.

E il padre? Spia dal terrazzo, ogni giorno, la strada sempre tanto vuota, con una gran pena nel cuore, ma anche con una infinita fiducia nel suo amore di padre, fedele senza alcuna esitazione.

Un giorno, alza il capo. L’ombra del figlio comincia a stagliarsi, smagrita e incerta, lontano, sulla polvere bianca della strada. Di colpo, dimentica senso di dignità, onore e altre considerazioni, gli si precipita incontro, lo abbraccia e lo bacia. Non ha saputo, né voluto resistere all’emozione, al rimescolamento interiore che lo ha preso nel rivedere il figlio.

Il figlio si dimostra molto più distaccato. Preoccupato di riuscire a convincerlo, recita la parte che si era preparato. Sembra non gli interessi l’affetto del padre. Fine. Di lui, la parabola non dice altro. Un silenzio eloquente, questo. Come se Gesù volesse dire: la chiusura nel suo egoismo è un muro che gli impedisce di riconoscere e accettare l’amore del padre.

In realtà, è tornato da servo, non da figlio. Qui c’è tutta la meschinità di questo figlio. E qui emerge anche tutta la grandezza di questo padre palestinese, il quale scorge il figlio «quando è ancora lontano». Lontananza non soltanto spaziale, ma soprattutto umana, data dal non essere ancora pentito, perciò lontano le mille miglia dallo spirito del padre – un padre che invece sa vedere il figlio ancora prigioniero di questa lontananza, poiché sta dirigendo i propri passi verso una casa dove stanno servi ben pasciuti, non verso la casa del padre che l’aspetta! Perciò gli esce incontro. Da buon genitore, infatti, sente che deve coprire una parte della distanza che si frappone tra lui e il figlio. Deve regnare la gioia, non il risentimento.

 

 

Il vero protagonista

 

Dunque, sin da questa prima parte della parabola, risulta chiaramente che il personaggio principale è il padre, non il figlio che prima fa il “prodigo” e poi decide di ritornare sui suoi passi – come di solito siamo abituati a commentare. Oltretutto, nelle parole del figlio non c’è alcun pentimento; d’altra parte, il padre non glielo chiede. Le parole del figlio sono funzionali ad ottenere quanto si era prefisso. E andrebbero anche bene se il padre gli chiedesse conto del suo operato. Poiché il padre non lo fa, esse risultano assolutamente stonate.

Il figlio compie ancora un gesto decisamente brutto. Proclama: «Non sono più degno d’essere chiamato tuo figlio». È assurdo. Forse che essere figli è una questione di dignità? Forse che il padre bacia e abbraccia tutti quelli che incontra? E poi, chi gli dà il diritto di non considerarsi più figlio, ma solo servo? Solo il padre può decidere del figlio, non il figlio stesso. E il padre lo ha appena accolto tra le sue braccia! E cosa fa questo padre palestinese? Comincia la paternale? Lo sgrida? Prende uno staffile? No. Ordina che gli siano restituiti i segni della sua dignità di figlio (anello al dito e calzari ai piedi) e che si faccia festa.

Dunque, il padre ignora completamente la «confessione» e la insensata richiesta del figlio. Dà ordini perché sia reintegrato nella condizione d’onore che aveva prima di andarsene, gioisce pazzamente per il figlio che ha di nuovo in casa. Prende, nientemeno, una decisione assolutamente antieconomica: per far festa fa uccidere il “vitello buono”, quello che avrebbe assicurato un bue forte o una mucca feconda. Ecco il perdono! Quel “supplemento di dono”, quel “dare un sovrappiù non dovuto” che dovrebbe spalancare le porte della coscienza al figlio e fargli finalmente comprendere ciò che abita nel cuore del Padre: una misericordia senza limiti. Un perdono che il padre esprime mediante la gioia e la festa: «Facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (in Luca 15 ben tre volte ricorre il richiamo a rallegrarsi e far festa).

Facciamo attenzione: il padre non ha assolto il figlio perché si è confessato bene! Esulta per averlo ritrovato, mentre temeva di averlo perduto per sempre. Quello che abbia o non abbia fatto è per lui irrilevante. È vivo, sano e salvo! Questa è la ragione della felicità del padre. È un padre che perdona perché è felice. Chi potrebbe dargli torto? “Ed ecco qui il nostro Dio”, ci sta dicendo Gesù attraverso questo confronto. “Il Padre mio è proprio così”.

L’esempio da seguire non è dunque il figlio cosiddetto “prodigo”, ma suo padre, nel quale tutto (gesti, parole e atteggiamento interiore) esprime il sentimento paterno; nel figlio, invece, gesti e parole e silenzi esprimono disprezzo di se stesso e insensibilità di fronte all’amore. Un figlio che, per aver dilapidato l’eredità, crede di non avere più diritto d’essere ancora figlio, non si rende conto che toglie al padre il diritto di essere suo padre!

 

Il confronto del padre col figlio maggiore

 

Gesù non mette in contrapposizione il figlio minore con il suo fratello maggiore. Sono certi nostri commenti moralistici a farlo. Per i farisei del suo (e del nostro) tempo, il primo è il “cattivo” (esce di casa, dilapida la sua parte di patrimonio…), mentre il secondo è il “buono” (resta in casa, preserva il patrimonio e lavora per incrementarlo…). Ma Gesù non afferma questo, anzi! Oppone nettamente il comportamento del padre a quello dei due figli, perciò anche a quello del maggiore.

 

Il figlio maggiore è l’erede di tutto il patrimonio paterno, e lo sarà anche dopo il ritorno del fratello. Consapevole dei propri diritti di primogenito e interessato al proprio avere, reagisce con risentimento sia verso il fratello sciupone, sia verso il padre – lui sì veramente “prodigo” oltre ogni buon senso. È geloso e pieno di rabbia, certo di essere solo lui “a posto” rispetto alle regole di comportamento familiare.

Vede nella condotta del padre una palese ingiustizia nei propri confronti; lo rimprovera di essere severo, tirato, prudente soltanto nei propri confronti, mentre fa lo splendido verso quel fratello sciagurato, che meriterebbe d’essere cacciato a pedate.

Si aspetta d’essere trattato con giustizia. Perciò, al padre – che pur si fa premura di uscirgli incontro, dimostrandogli tutto l’amore e la considerazione che ha per lui – rinfaccia la liberalità per aver accolto quel vagabondo e, al minore, d’essere sciupone e profittatore. Allo stesso tempo, non perde l’occasione per esaltare le proprie doti di fedeltà, obbedienza e laboriosità. Con ciò dimostra d’essere, anche lui, schiavo del proprio egoismo, pieno di sé, dei propri diritti e della propria giustizia. Non ha capito l’amore del padre ed è incapace di perdono.

Da parte sua, il padre gli ripete i motivi della propria gioia. Cerca di contagiarlo, di coinvolgere quel figlio che, dall’alto della sua “giustizia”, è così risentito e freddo. Invita anche lui: «Dài, vieni, facciamo festa assieme!».Ma il figlio non rientra in casa.

Fine. Di lui la parabola non dice più nulla: un silenzio eloquente, da ascoltare col cuore.

Si può forse impedire all’amore di amare? Il figlio maggiore ci prova, ma non ci riesce.

Quel figlio non si rende conto che esiste una giustizia alquanto diversa dalla sua e ancor più vera: la giustizia del padre; una giustizia che non segue i criteri di merito e di ricompensa, non “da a ciascuno il suo”, non punta al pareggio di bilancio, ma esclusivamente all’amore, poiché vuole per i figli ciò di cui ognuno necessita. Una giustizia che si compiace di restituire dignità al figlio minore, usargli pietà, perdonarlo, riammetterlo nella condizione di usufruire del proprio amore e di diventare nuovamente capace di amare, di vivere nella comunione della famiglia; e una giustizia che non esita a rimarcare al maggiore che tutto ciò che possiede è suo, mentre lo prega di gioire e far festa. Dunque, una giustizia che rigenera ad una vita nuova.

 

 

 

Osservazioni

 

1. – Questa parabola ci rivela il volto del Padre e ci richiama a passare al vaglio del suo insegnamento tutto ciò che possiamo pensare e dire su Dio. Essa mette in risalto un padre che si comporta ben oltre ogni nostra aspettativa: non accoglie il figlio minore come si sarebbe meritato e neppure lo riduce a servo, come il figlio stesso chiedeva. Lo accoglie nel pieno della sua dignità, mentre al maggiore apre la prospettiva impensata della gratuità. Notiamo che questo padre non presta la benché minima attenzione alle colpe dei figli. Sono i due figli che si interessano alle colpe (loro o altrui), non il padre; il padre è interessato a ben altro: a far festa. La sua gioia è eccessiva ed è quello che, per lui, conta di più.

Evidentemente, Gesù vuole che i suoi discepoli intendano bene “chi” c’è in realtà dietro il volto di questo padre palestinese: c’è il Padre suo, il quale perdona i peccatori gratuitamente, senza condizioni previe, senza che questi si meritino d’essere perdonati, poiché la sua misericordia oltrepassa ogni esigenza di giustizia umana. Solo questo comportamento può arrivare a cambiare noi, suoi figli!

 

2. – Ciascuno di noi è simultaneamente sia il figlio minore, sia quello maggiore. Non possiamo identificarci in assoluto con uno solo di essi, dal momento che potremmo essere, di continuo, ora l’uno ora l’altro, secondo le nostre scelte.

Siamo come il figlio minore quando pensiamo di costruirci la nostra vita lontano dalla casa del Padre, insensibili al suo amore. Il Padre ci viene incontro in questa nostra lontananza per ricordarci che la nostra esperienza dell’amore paterno e misericordioso di Dio non è ancora conclusa. Infatti, non abbiamo ancora raggiunto la meta del nostro cammino, che è far festa nella casa del Padre. Abbiamo ricevuto il perdono dal Padre, ma esistono ancora fratelli che non sono in pace con noi o tra di loro, con i quali è necessario compiere gli umili passi della riconciliazione.

Siamo come il figlio maggiore quando, pur materialmente presenti nella casa del Padre, ma con il cuore lontano, non riconosciamo la gratuità del suo amore senza limiti. È questo il nostro vero peccato. È dunque essenziale per noi prendere finalmente coscienza che lasciarsi amare da lui significa imitarlo e aprire le braccia del perdono al nostro fratello. C’è ancora un mondo da amare, da perdonare, da aprire alla speranza; e l’amore che abbiamo ricevuto dal Padre cambia la nostra vita nella misura in cui diventiamo prossimo di ogni nostro fratello, specialmente con la grazia del perdono.

 

3. – La parabola sembra suggerire la direzione da seguire se vogliamo perdonare il fratello che ha peccato contro di noi: riconoscere giusto e condividere cordialmente il comportamento misericordioso del Padre. Nella sua infinita e incomprensibile misericordia, egli esercita il perdono al di là di tutti i nostri schemi di giudizio e di giustizia. Noi, grettamente, facciamo fatica ad ammettere che Dio sia quel Padre provvidente che «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti», senza fare differenza di persone, di cui parla Gesù (Mt 5,45). Un simile Dio va ben oltre i nostri modi meschini di intendere la giustizia, ed è ben lontano da quel sottile e inconfessabile desiderio di vendetta nascosto dietro la nostra convinzione che egli rimandi la resa dei conti al giudizio finale, quando, finalmente, potrà prendersi la sua “rivincita” sui peccatori e sui malvagi... Soltanto se riconosciamo la sua bontà ed accogliamo noi per primi il suo perdono, saremo capaci di perdonare di cuore i nostri fratelli.

 

4. – I nostri errori non allontanano Dio da noi. Siamo noi che ci allontaniamo da lui, ma egli continua ad essere nostro Padre, a ritenerci e a trattarci da figli amati, poiché «anche se il nostro cuore ci condannasse, Dio è più grande del nostro cuore» (cf. 1Gv 3,20s). Dio resta sempre nostro Padre e noi siamo sempre suoi figli. Esserlo non è una questione di dignità, ma di paternità di Dio. Egli non viene mai meno a questo suo essere.

Non diciamo dunque: “non sono degno”, perché sarebbe una bestemmia. Sarebbe come dire: “tu non sei più mio Padre”. Ricordiamo che il nostro peccato non può cambiare la natura di Dio: da Padre a non-Padre, e dunque da Dio a non-Dio. Non può cambiare il suo amore in indifferenza, il suo affetto in giudizio, la sua tristezza in odio e vendetta.

Riuscire a capire questo (col cuore, non solo con la ragione) è una grande grazia che ci apre all’amore del Padre, il quale può realmente guarire le ferite del nostro spirito. Agli occhi di Dio valiamo per quel che siamo, non per quel che facciamo: questo è Vangelo, la buona notizia che Gesù ha portato, la notizia che ci apre alla speranza di una vita nuova.

Il Padre non vuole servi, ma figli che vivano nel suo amore e desiderino ardentemente di entrare nella gioia del Padre.

 

5. – Un ultima osservazione, fondamentale: soltanto se ci sappiamo perdonati da Dio, possiamo riconoscere d’essere peccatori, poiché solo l’esperienza del perdono rivela il nostro peccato e provoca al pentimento. A partire da noi stessi, infatti, potremmo pervenire a riconoscere i nostri errori, le nostre colpe, gli stessi nostri crimini… ma non il peccato, il quale, per essenza, è sempre rifiuto di Dio – e soltanto Dio può illuminare la nostra coscienza e rivelarci la nostra situazione di peccatori. «Contro di te, contro te solo ho peccato – preghiamo, infatti, col salmo 50 –, e quello che è male ai tuoi occhi io ho fatto».

Solo colui che ha ricevuto il perdono di Dio, può perdonare chi ha peccato nei suoi propri confronti.

 

A mo’ di conclusione

 

Che Gesù abbia lasciato in sospeso la storia dei due fratelli è manifesto a tutti. Possiamo ipotizzare noi una conclusione? Forse no, ma un giorno ne ho sognato una.

 

Il figlio maggiore, rientrando da una dura giornata di lavoro, sente musiche e canti provenire da casa sua. E rimane di sasso.

«Tuo fratello è tornato!», gli dice un servo.

«Chi? Quel vagabondo?».

«Sì, e stanno festeggiando. Dài, entra».

«Io? Quello là, neanche in foto lo voglio vedere. Vai pure, io non entro».

Al padre non sfugge la scena. Esce.

«Figlio, vieni in casa. Tuo fratello è tornato, facciamo festa insieme», lo implora.

«Sei forse ammattito? Quello ti ha rovinato il patrimonio e si è mangiato tutto, e tu salti di gioia? No, questa non dovevi farmela, dopo anni di fedele servizio...». E si allontana.

Il figlio maggiore era tornato ai campi, ma non aveva più voglia di lavorare; passava il tempo a rimuginare, solo, seduto sotto una quercia. Un giorno, mentre si sentiva morire dal freddo e dalla fame, oppresso dalla nostalgia, dice tra sé: “Tornerò da mio padre e gli dirò: se hai accolto quello scioperato di mio fratello, puoi accogliere anche me. Almeno dammi un capretto per far baldoria con i miei amici”. Lentamente, si alza e... sorpresa! Si ritrova di fronte il padre e il fratello.

Cos’era accaduto? Il prodigio più semplice: il minore aveva capito che il suo cammino di ritorno alla casa del padre non era ancora concluso; doveva uscire ancora, andare a cercare il fratello e riconciliarsi con lui. Gli tende le braccia e gli mormora:

«Fratello, perdonami».

Allora, il maggiore sente che veramente tutto quello che è del padre è anche suo, compreso l’amore e la capacità di perdono. Si getta nelle braccia del fratello, si lascia stringere e piange di gioia.

 

Ciò significa che il “lieto fine” dobbiamo scriverlo noi con la nostra vita.