IV - QUARESIMA 03.04.2011
Primo Libro
di Samuele 16,1-13
Lettera agli
Efesini 5,8-14
Vangelo
secondo Giovanni 9,1-41
Passando, Gesù vide un uomo cieco dalla
nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì,
chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù:
«Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le
opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato
finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono
nel mondo, sono la luce del mondo». Detto questo, sputò per terra, fece del fango
con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a
lavarti nella piscina di Sìloe» – che significa
Inviato. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva…
Cristo nostra luce
Di solito, se
Gesù compie un miracolo, è perché qualcuno si rivolge a lui con un’attesa o manifestando
fede in lui come Cristo e Figlio di Dio. Ma il cieco nato – vangelo di questa
domenica – non dice nulla e nessuno chiede niente per lui. È Gesù che si muove
di sua iniziativa. Poteva il cieco desiderare la luce, di cui non aveva la
minima idea? Potevano i discepoli avere pietà della cecità di quell’uomo, intenti
com’erano a discutere di teologia? “Rabbì – chiedono
infatti al Maestro – chi ha peccato, lui o i suoi genitori per essere nato cieco?”.
L’inizio del
racconto è istruttivo: Gesù si muove per portare luce ad un uomo, per liberarlo
da una schiavitù dalla quale non era umanamente possibile affrancarsi. I suoi
discepoli discutono di teorie, lui invece mette in atto una “liturgia”, semplice
ma estremamente significativa: sputa per terra, impasta un po’ di fango e lo
spalma sugli occhi del cieco. La luce che Cristo porta, passa attraverso gesti
di una povertà estrema. Qualcosa di sé entra nella nostra polvere e porta nuova
vita. La sua compassione si fa gesto umile, lasciando le discussioni a coloro
che non osano sporcarsi le mani, a coloro che comunque lasceranno gli occhi
spenti di un cieco nell’impossibilità di sognare la luce.
La domanda
d’inizio dei discepoli su chi abbia peccato, sembra dominare tutta la scena;
anche i farisei sono presi dalla convinzione di essere in presenza del peccato:
“Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore” (loro
“sanno”!); “Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?” (poiché
“sanno”, non accettano lezioni da nessuno!).
Gesù non
discute con i farisei, non teorizza, non si appella a regole e codici. Tocca
gli occhi di un uomo dolente, perché vuol aprirli alla luce: alla luce del sole
e, soprattutto, alla luce della fede nel Figlio di Dio.
Vuol dare
speranza, non regolare dei conti.
E questo è un
insegnamento sempre di grande attualità, poiché anche tra coloro che si
dichiarano discepoli di Gesù, c’è ancora chi è convinto che per essere cristiani
sia essenziale stabilire “dove sta il peccato”, ed essere in regola con le
norme etiche… magari per sentirsi a posto e poter puntare il dito contro chi
agisce diversamente. Immiserire la fede cristiana, riducendola a questioni di
peccato, sembra sia l’occupazione privilegiata e puntigliosa di tanti
cristiani, che non hanno ancora capito la forza di quella semplice, piccola
liturgia del Maestro che manifesta il cuore misericordioso del Padre.
Secondo Gesù,
il vero peccato è quello di chi si ritiene senza peccato e condanna gli altri.
Costui usa il peccato per disprezzare e condannare l’uomo, invece di
soccorrerlo con un semplice gesto di amore e di speranza. E usa il peccato come
teoria che vorrebbe spiegare il mondo, mentre in effetti non fa altro che
costruire una maschera orrenda e porla sul luminoso volto di Dio, Padre di
misericordia!
L’uomo non coincide con suo peccato. E Dio lo ama infinitamente. Per questo si muove per primo e spontaneamente per sfiorargli gli occhi e donargli luce.
P. Carlo
E’ in Libreria il mio libro, scritto in collaborazione
con P. Luppi:
Tracce di Speranza, EDB, Bologna 2011
Buona meditazione!