XXIII
DOMENICA Tempo Ordinario 05.09.2010
Sapienza 9,13-18
Lettera a Filemone 9-10,12-17
Vangelo secondo Luca 14,25-33
In quel tempo, una folla numerosa andava
con lui. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di
quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e
perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non
porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
Chi di voi, volendo costruire una torre,
non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a
termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il
lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha
iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale
re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può
affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no,
mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.
Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.
Le esigenze della sequela
La prima lettura di questa domenica si apre con
un doppio interrogativo: «Quale uomo può
conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?».
Solo la Sapienza di Dio può illuminare la coscienza dell’uomo. E questa
Sapienza ha un nome: Gesù, il Maestro che rivela ai propri discepoli le
esigenze del regno di Dio.
Queste esigenze, secondo la pagina evangelica
odierna, sono molto dure: per essere suoi discepoli occorre essere disposti a
prendere la propria croce, a rinunciare ai propri averi e a mettersi al suo
seguito.
Anzitutto, dice di «portare la propria croce».
L’unica croce che salva è quella di Cristo. Se Gesù dice di prendere ciascuno la propria, vuol dire che dobbiamo essere disposti ad accogliere e fare nostra la sua. Ma che cos’è la croce per Cristo? Non è una domanda fasulla. Tutt’altro! Per comprendere, possiamo contemplare il crocefisso.
Gesù vi è inchiodato sopra, nudo, senza protezione dai nemici, alla mercé del popolo che lo insulta e lo beffeggia, privo di libertà, abbandonato da tutti (tranne la Madre). Povero, dunque, della povertà più radicale. Non si appartiene più. Appartiene soltanto alla sofferenza più disumana e alla morte.
Chi lo ha spinto ad accettare una simile
situazione? L’amore verso il Padre, l’amore verso di noi, suoi fratelli. Con la
croce, Gesù ha rinunciato a tutto per donarsi a noi con un amore impensabile, infinito.
Ecco dunque il vero significato di quel «portare la nostra croce»: condividere la sua capacità di dono, consapevoli che solo un amore di preferenza totale può spingerci ad accettare una simile condizione.
E poi, abbiamo la seconda parte del vangelo: le due parabole.
Costruire una torre o muovere in guerra erano due imprese “serie”. Non potevi avventurarti nell’impresa e poi tirarti indietro quando volevi. Gesù usa queste immagini per sollecitare la nostra “serietà”.
Seguirlo a quelle condizioni significa che non è possibile essere suoi discepoli e vivere la sequela come se fosse un optional, o finché ne siamo capaci o ne abbiamo voglia. Non è un gioco per gente superficiale, distratta, presuntuosa, velleitaria.
Gesù dice: devi calcolare e riflettere. Calcolare che cosa? Che se vogliamo “vincere” la nostra battaglia, o “compiere” la nostra impresa di seguirlo, dobbiamo mettere in atto una strategia vincente. E questa è una sola: fare la nostra parte, rinunciando a costruire la nostra vita sui nostri averi e scegliendo la povertà di Gesù.
Sono calcoli strani, questi: sicuramente non valgono per alcuna azienda o per alcuna iniziativa umana. Hanno valore effettivo e vincente soltanto per chi vuole “impossessarsi” del regno di Dio. Qui, con questi mezzi, il successo è assicurato! Ad una condizione: che si abbia ben presente il monito di Gesù: «Chi pone mano all’aratro e poi si volge indietro, non è adatto per il regno di Dio».
P. Carlo