DOMENICA  29.ma  - A -   IO, A CHI APPARTENGO ?

 

     Il Vangelo di oggi è di una sorprendente attualità: Gesù ci offre i principi che dovrebbero regolare i rapporti dei credenti con lo Stato a cui appartengono e ci dà i termini per intendere il detto tanto conclamato “libera Chiesa in libero Stato”; in altre parole, ci dà la esatta interpretazione di come interpretare la “laicità” dello Stato. Noi cattolici veniamo spesso accusati di non rispettare le libertà reclamate e votate da un Parlamento che legifera in ogni ambito, anche in ambito che non gli compete; in altre parole, lo Stato che si dichiara “laico”, esige che i propri cittadini debbano accettare, come legittime, le delibere che riguardano anche la sfera personale, il diritto sacro alla vita e alla libertà di religione e di opinione, o che contrastano la coscienza personale di ognuno.

     Tutto ha inizio da una domanda trabocchetto che i farisei pongono a Gesù con l’intento di coglierlo in fallo; gli chiedono se è lecito pagare le tasse a Cesare che ha invaso militarmente il loro territorio. Che Gesù risponda con un SI, o con un NO, dovrà comunque giustificarsi con la controparte che si ritiene offesa. Ma ecco la risposta salomonica di Gesù: DATE A CESARE QUELLO CHE E’ DI CESARE, E A DIO QUELLO CHE E’ DI DIO”. Avverte quindi Gesù che ognuno di noi ha degli obblighi sia verso lo Stato, sia verso Dio; avvertendo però che lo Stato e Dio non sono posti in alternativa, ma su piani diversi. Lo Stato può esigere dai cittadini obbedienza e collaborazione negli ambiti che gli competono, per una serena convivenza di tutti. Lo  Stato può esigere dai cittadini il rispetto di quanto concordato in fase legislativa, ricordando però che l’uomo non è proprietà dello Stato; e che quindi questo non può legiferare su un bene che non gli appartiene. Un cittadino – non importa a quale religione appartenga – ha una propria coscienza che gli ricorda di essere creatura e che, come tale, dipende da Dio. Lo Stato non potrà mai chiedermi di scendere a compromessi con la mia coscienza, quando soprattutto è in gioco la vita e la persona.

     Il problema si fa spinoso per i parlamentari quando devono scegliere tra scelte di partito e il rispetto della propria libertà di coscienza; così pure è per il medico, o l’avvocato, quando vengono chieste soluzioni che contrastano i sacrosanti diritti della persona. Gesù è chiaramente un obiettore di coscienza, quando sentenzia: “Date a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio”. La moneta che serve per i nostri scambi porta l’effigie e l’iscrizione dello Stato che l’ha coniata. Ma l’uomo è segnato da altra effigie e da altra iscrizione; disse Dio: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”. L’uomo non è proprietà dello Stato. Appartiene tutto – e solo – a Dio; e solo a Dio, alla fine, dovrà rendere conto di come avrà usato la vita con tutti i doni connessi. Abbiamo ascoltato, nella prima lettura, la proclamazione della signoria di Dio: “Io sono il Signore, e non ce n’è altri”. Isaia, in altro passo, invita l’Israelita a scrivere sulla palma della mano: “Questa è proprietà del Signore”.

     Il credente è certamente anche un buon cittadino perché partecipa, con contributi e servizi, alla costruzione di una società dove il reciproco rispetto crea benessere e pace. Il credente sa che al termine della vita non dovrà rendere conto allo Stato, ma a Dio. Alla nostra morte, lo Stato ci offre, come ultimo servizio, la sepoltura; e qui si chiudono i nostri rapporti e le nostre pendenze, anche giudiziarie. Ma la nostra vita continua in Dio. La domanda iniziale dei farisei era formulata con il verbo “pagare”; ma avrete notato che nella risposta di Gesù troviamo il verbo “rendere”. Dio non ha bisogno dei nostri soldi; Dio ci chiederà conto di cosa ne abbiamo fatto della vita e di tutti i beni ricevuti per rendere bella e serena la vita nostra e di quanti ci sono stati affidati. Nella morte l’uomo restituisce a Dio se stesso. Mi pare giusto allora che ci lasciamo con una domanda: IO, OGGI,  A CHI EFFETTIVAMENTE APPARTENGO?  Amen.