DOMENICA  27.ma  - A -   :   UN  AMORE  FERITO !

 

     Anche questa domenica, la Liturgia della Parola  ci offre, come tema, la VIGNA; ce lo ripropone per ribadire il rapporto sponsale, e perciò unico, tra Dio e il suo popolo; purtroppo alla fedeltà di Dio fa riscontro l’infedeltà di Israele. Così ne parla Isaia, nella prima lettura: “Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle; vi aveva piantato viti pregiate. Egli aspettò che producesse uva; invece produsse acini acerbi”. Conclude Dio, con struggente commozione: “Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?”. Fratelli, oggi dovremmo fermarci per dare spazio a questo lamento di Dio, per riuscire a capire i tanti interventi di Dio nella nostra vita. Dobbiamo lasciarci scuotere dalla sofferenza di un cuore deluso e amareggiato. Ora, davanti a ciascuno di noi, sta Dio che chiede anche a me ragione di tanta ingratitudine.

     Noi sappiamo che nell’antico Israele, la vigna e il gregge erano un bene prezioso; per cui vengono spesso ricordati come segno dell’amore e della benedizione di Dio. Definire quindi Israele come “vigna del Signore” significava esprimere la benevolenza di Dio verso quel popolo che Dio stesso definiva Il ”MIO POPOLO”. Nel Vangelo ascoltato ora, Gesù riprende il discorso di Isaia, a proposito della vigna, per ribadire l’affetto, la tenerezza e la misericordia di Dio verso il nuovo popolo di Dio, l’umanità intera. Israele aveva rifiutato il progetto d’amore del suo Dio; aveva addirittura ucciso tutti i Profeti che Dio aveva inviato a loro. Ora Gesù annuncia, nella parabola, che a Gerusalemme lo stavano attendendo per essere ucciso. Fratelli, il lamento di Gesù è per tutti noi. Mi inquieta sapere che Dio possa soffrire per causa mia, a motivo delle mie ingratitudini e infedeltà. Ecco che ritorna il lamento di Isaia: Dio è innamorato di una sposa opportunista e infedele, qual è l’umanità, che misconosce tanto amore e rifiuta anche l’ultimo tentativo: “Da ultimo – è detto nella parabola – mandò loro il proprio figlio dicendo: Avranno rispetto per mio figlio! Ma i contadini lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero”.

     E’ la scelta tragica di una umanità che non riconosce il proprio Creatore; è una decisione suicida dell’uomo che si crede autosufficiente, mentre vive un fallimento dopo l’altro, e continua a camminare sull’orlo di un baratro che potrebbe inghiottirlo per una morte eterna. Ma il nostro Dio è amore e misericordia; l’amore soffre e sa attendere. La parabola dell’amore deluso non si conclude con un fallimento; Dio non può fallire. Per molti, la morte in croce è fallimento; invece, nel progetto di Dio, la croce è la più grande vittoria, la vittoria dell’amore. Sulla croce, Gesù redime anche le nostre sconfitte e i nostri fallimenti. Nonostante la nostra caparbia ostinazione di non voler riconoscere Dio come nostro Signore, Dio non ci abbandona ; Dio rimane fedele alla sua dichiarazione d’amore al Padre e all’uomo, memore della consegna ricevuta dal Padre “che nessuno di loro vada perduto!”.

     San Bernardo usa la metafora della sorgente per spiegare la infinita misericordia di Dio: “La sorgente – egli afferma – dà sempre molto di più di quanto basti all’assetato”. Ecco dunque il vero dramma che Gesù ha voluto mettere in evidenza: che Dio vuole salvare l’uomo, e l’uomo è continuamente in fuga da lui. Ha inviato a noi il proprio Figlio, come tentativo estremo di recupero, e noi l’abbiamo messo in croce! Ciascuno di noi dovrebbe oggi fermarsi davanti al Crocifisso per riconoscere i propri peccati come causa della sofferenza di Gesù Crocifisso. Davanti al Crocifisso dovremmo riconoscere che proprio i nostri “NO” a Dio sono all’origine di tanti nostri fallimenti. Siamo noi i falliti, NON DIO! Voglio concludere l’Omelia con la bella preghiera del Salmista: “Da te mai più ci allontaneremo, facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome. Signore, fa’ che ritorniamo, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi”.  Amen.