«Custodi e testimoni della speranza»

 

 

 

 

Il papa Giovanni Paolo II, quasi all’inizio del pontificato, chiese a noi francescani di dare il nostro contributo per soddisfare il bisogno di speranza del mondo d’oggi, mediante il nostro apporto originale che si ispira a san Francesco, e ci affidò il mandato di essere autentici testimo­ni della speranza che non delude (Giovanni Paolo II al Pontificio Ateneo Antonianum, 16.01.1982). Appello che rinnovò più tardi a Greccio: «Portate a questa nostra epoca la Buona Novella che è annunzio di speranza, di riconci­liazione e di pace; risuscitate Cristo nel cuore degli uomini angosciati ed oppressi; siate per tutti custodi e testimoni della speranza che non delude» (1983).

 

Non è facile essere testimoni della speranza in una società fortemente materialista, «sazia e disperata», costruita sul negativo, sull’effimero e sulla cultura del pessimismo… Ma, proprio per questo dobbiamo essere disposti a custodire fedelmente la speranza, temprando in essa quotidianamente lo spirito.

Solo in questo modo potremo divenire portatori di speranza in un mondo che, pur avendo fame di questa speranza, si trova nell’impossibilità di procurarsela col proprio lavoro o di acquistarla col proprio denaro. E saremo uomini e donne capaci di essere accanto allo stanco e allo sfiduciato, non con le sterili lamentele o la condanna del mondo che non gira secondo i nostri desideri, ma con animo lieto e pieno di fiducia, pronti a soccorrerlo come il buon samaritano. Uomini e donne pronti – come Pietro e Giovanni davanti al tempio di Gerusalemme – a dare allo storpio ciò che hanno di più prezioso: «Non possiedo né argento né oro – gli disse Pietro –, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!» (At 3,6). Uomini e donne con il cuore ricolmo della carità più luminosa. Uomini e donne che, per essere pronti a mettersi accanto alle persone che soffrono nel corpo e nello spirito, si sforzano di essere veri in se stessi, sinceramente aperti all’accoglienza, riconoscendo nel fratello il Cristo stesso.

 

1. Davanti a Gesù, speranza del Padre.

Il custode della speranza si pone, anzitutto, davanti al testimone per eccellenza, a Gesù «speranza del Padre», come fecero Maria di Betania, i discepoli al ritorno dalla missione lungo i villaggi della Palestina (cf. Mc 6,30-32) e i discepoli di Emmaus. L’ascolto della Parola del Signore e la condivisione dello stesso Pane accende in noi il desiderio di seguire Cristo.

 

Perciò, se vuoi essere custode della speranza,

 

-         Stai in silenzio accanto a Cristo, dissetati alla sua Parola e mangia il suo Pane

-         Interrogati su quanto egli si aspetta da te e rinnova la tua disponibilità

-         Cerca di non lasciarti travolgere dagli eventi, dai cambiamenti, dai problemi

-         Elimina il pessimismo e la critica…

-         Sii tu a guidare le tue cose, non queste a guidare te

-         Agisci, pretendendo solo da te

-         Vivi momenti di pace, solitudine, riposo, riflessione, raccoglimento, preghiera…

-         Sii fiducioso come Francesco, «sottomesso ad ogni creatura umana per amore di Cristo».

 

Ricordati che Dio non ti giudica dal successo delle tue imprese, ma dall’impegno che vi metti. Guarda a Gesù: è stato glorificato dal Padre non perché sia riuscito a diventare «qualcuno» in mezzo agli uomini (ha respinto persino il tentativo delle folle di farlo re), ma perché ha portato a compimento la volontà del Padre, amandoci sino in fondo.

2. Fondati su Gesù.

Il custode della speranza costruisce sulla roccia che è Cristo, non su se stesso.

Cristo, infatti, non ha bisogno di eroi, di «culturisti dello spirito», che cambiano il mondo con la forza della propria volontà, con le proprie imprese e il proprio genio. Ha bisogno di persone disponibili e pronte a «contagiare» il mondo con la speranza che lui stesso ha riversato in noi. Ha bisogno che diventiamo, come lui, dispensatori di speranza, condividendo con i nostri compagni di viaggio ciò che abbiamo ricevuto, fiduciosi nella bontà, grandezza ed efficienza del dono stesso e consapevoli che, nella misura in cui alimentiamo la speranza nei nostri fratelli, accresciamo pure la nostra. La parabola dei talenti insegna che si custodisce il dono di Dio, donandolo a nostra volta, altrimenti lo perdiamo.

Condividere, e perciò dare con gioia, fondendo insieme la limpidezza dell’intenzione e la gratuità del gesto, il buon umore del sorriso e la grandezza d’animo, l’audacia e la generosità, la pazienza e l’umiltà. Il tutto condito con un grande senso di gratitudine verso il fratello, dal momento che, offrendoci la possibilità di farci prossimo, fa in modo che noi stessi usufruiamo del dono di Dio.

Ma cosa vuol dire «costruire la casa della speranza sulla roccia di Cristo»?

Semplicemente, che la speranza poggia sul perdono e sulla riconciliazione col Padre che Cristo ha operato mediante la croce e la risurrezione.

La fiducia nel perdono di Dio Padre di misericordia genera speranza, e il perdono che egli riversa in noi la nutre e la rafforza. Ne segue che l’esercizio del perdono diventa la via maestra per custodire la speranza in se stessi e diffonderla nell’uomo; la via per operare nella speranza. L’operare è essenziale quanto la carezza di una madre al bimbo che ha generato: in quella carezza l’amore diventa vero, nell’atto del perdono la speranza diventa vera e si comunica.

 

3. Pronti a rispondere a chi ci chiede conto della nostra speranza.

Non solo custodi, ma anche maestri: «Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,14).

Annunciatori di speranza, capaci anche di illuminare sia le persone che vivono accanto a noi, sia quelle che incontriamo, con il vangelo della speranza, buon annuncio che in Cristo ci sono aperte le porte della vita e della felicità. Annuncio che chiarisce il gesto di tendere la mano verso gli sfiduciati, i depressi, i disorientati, le persone deluse dal mondo e dalle sue promesse; parola che apre ad una nuova fiducia..

 

4. Pronti a donare speranza.

Noi doniamo speranza anzitutto quando restituiamo noi stessi e il mondo a Dio come atto di culto. Il nuovo culto che Cristo ha istituito non è fatto di riti, ma di una esistenza pura, quotidianamente vissuta nella fede, nella speranza e nell’amore di Dio e dei fratelli, cioè nel pieno rispetto di quel Dio che ha fatto dell’uomo il nuovo tempio della sua presenza tra gli uomini (cf. 1Cor 6, 19-20). E poi celebriamo la speranza nella liturgia. La liturgia è il segno di questa offerta. Con essa ci uniamo all’unico, divino Celebrante che, una volta per tutte, è entrato nel Santuario dei cieli, Cristo sommo ed eterno Sacerdote (cf. Eb 6,19).

Il momento centrale della celebrazione della speranza è l’eucaristia. In essa, portiamo a Cristo le gioie e le speranze, le delusioni e le attese nostre e di tutti gli uomini, e sottoponiamo il tutto alla sua Parola, alla sua croce e risurrezione. Resi partecipi del Pane e del Vino, riconosciamo colui che ci «faceva ardere il cuore in petto» e riprendiamo con gioia il nostro cammino.

La celebrazione dell’eucaristia è un forte esercizio di speranza: è il momento in cui Cristo, donandosi a noi e facendosi riconoscere, ci disseta alla sorgente della speranza; il momento in cui ci unisce intimamente a sé per presentarci al Padre e inviarci nel mondo.

Mentre celebriamo l’eucaristia, manifestiamo e proclamiamo Cristo nostra speranza, in attesa della sua venuta.

 

 

5. Uomini e donne sempre all’opera.

Diventiamo testimoni di speranza attraverso la pazienza e l’umiltà, orientando desiderio, scelte e azione verso ciò che speriamo, con tenace perseveranza cerchiamo i segni della speranza ovunque vi sia bene, verità, bellezza, pazienza nella sofferenza, costanza nella fatica, coraggio nella responsabilità…

Ne riconosciamo anche, con chiarezza, i nemici: pessimismo, delusione, apatia, sfiducia, il cielo sempre nero, la critica amara, l’indifferenza, la lamentela…

Rifiutiamo ciò che può favorire questi nemici: relativismo, imprecisione, ambiguità, pressappochismo, appoggiarsi solo su se stessi, indulgere alla critica, rassegnazione, cedere alle difficoltà senza lottare e senza rispondervi con creatività e generosità... Quando si tratta dei doni di Dio, niente deve fermarci; perciò rigettiamo prontamente quell’autentica tentazione nascosta dietro l’espressione così frequentemente ripetuta: «A che serve? Tanto…», primo passo verso la rinuncia e la fuga.

Il testimone di speranza valuta in positivo, sempre; è realista e ben presente nel tempo e nel luogo in cui vive. Non cede a fughe nel passato o a fughe nell’utopia. Si impegna a riprendere il passato per trasformarlo in un nuovo inizio, poiché sa che la memoria storica è la buona maestra di ogni rinnovamento; e si impegna a rimanere aperto al futuro, libero creatore di possibilità.

Il testimone di speranza opera per far fruttificare i talenti, senza nasconderli nella passività e dell’appiattimento, ma anche senza importunare nessuno con l’imposizione dei propri punti di vista e la mancanza di rispetto. Non pretende più di quel che può fare. Mantiene alti gli ideali, e ad alto profilo le finalità, ricordando il detto di Gesù: «Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento?» (Lc 14,28). Agire in base ai mezzi che si ha e a progetti possibili è la via obbligata se si vuol conservare la fiducia degli altri, suscitare speranza e soddisfazione…

Da parte nostra, sappiamo individuare i «testimoni della speranza» del nostro tempo? E soprattutto, osiamo farne parte?

 

p. Carlo Dallari