Francescani secondo lo spirito delle Beatitudini

 

 

 

P. Carlo Dallari

 

 

 

 

«Nello spirito delle beatitudini (i francescani secolari) s’adoperino a purificare il cuore da ogni tendenza e cupidigia di possesso e di dominio, quali “pellegrini e forestieri” in cammino verso la casa del Padre» (Regola, 11).

 

 

L’itinerario delle nostre riflessioni si sofferma sul «come essere» per andare spediti lungo la via della penitenza verso la casa del Padre: essere leggeri, avere l’essenziale. Gesù diceva: «Senza borsa, né due vesti, senza fermarsi a perdere tempo in lunghi e cerimoniosi saluti…». In effetti, il pellegrino deve indossare la veste della povertà, se vuole arrivare spedito alla casa del Padre. Una povertà che, ben più di una semplice mancanza di mezzi, è partecipazione a quella di Cristo, perché è questa la povertà che egli indica ai suoi discepoli. Una povertà che brilla per alcune prerogative: è scelta, fraterna, condivisa, vissuta in comunione con i figli di Dio; è senza rimpianti, senza recriminazioni; è strettamente congiunta alla beatitudine, carica di quella gioia che sgorga dalla promessa di Gesù: «Beati, felici voi, poveri, poiché il regno di Dio vi appartiene». È la povertà dell’uomo che scopre, con stupore, che «regno» e «felicità» sono la chiave di lettura per comprendere il senso delle parole di Gesù su povertà e ricchezza. Tanto che verrebbe da proclamare: se non siete felici, accogliete il vangelo della povertà, e lo sarete!

Lasciamoci dunque avvolgere e guidare, ma anche giudicare e mettere in questione dalle beatitudini evangeliche; impariamo da esse ad essere come il Figlio di Dio. Ci guideranno per la via più breve alla casa del Padre.

 

 

C

 

Anzitutto, il testo e una brevissima interpretazione, per entrare direttamente nel contenuto delle beatitudini.

 

Beati i poveri in spirito,

perché di essi è il regno dei cieli.

     Beati gli umili che confidano solo in Dio, perché ad essi è riservato il suo regno.

 

Beati gli afflitti,

perché saranno consolati.

     Beati coloro che si affliggono per il male presente nel mondo e in loro stessi, perché Dio li consolerà.

 

Beati i miti,

perché erediteranno la terra.

     Beati i miti, coloro che sono accoglienti, cordiali, pazienti e rinunciano a imporsi agli altri con la forza, perché Dio concederà loro di conquistare il mondo.

 

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,

perché saranno saziati.

     Beati quelli che desiderano ardentemente la volontà di Dio per sé e per gli altri, perché Dio li sazierà alla sua mensa.

 

Beati i misericordiosi,

perché troveranno misericordia.

     Beati i misericordiosi, che sanno perdonare e compiere opere di carità, perché Dio sarà misericordioso con loro.

 

Beati i puri di cuore,

perché vedranno Dio.

     Beati i puri di cuore, che hanno una coscienza retta, perché Dio li ammetterà alla sua presenza nella liturgia celeste.

 

Beati gli operatori di pace,

perché saranno chiamati figli di Dio.

     Beati quelli che costruiscono una convivenza pacifica, giusta e fraterna, perché Dio li accoglierà come figli.

 

Beati i perseguitati per causa della giustizia,

perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi.

     Beati i perseguitati a motivo della nuova giustizia evangelica, perché Dio re giusto, li salverà.

 

(Mt 5,3-12. Cf. CEI, Catechismo degli adulti, 133).

 

C

 

1. Beati i poveri in spirito

 

Secondo san Bonaventura, la povertà è la forma della penitenza francescana, il modo in cui la conversione/penitenza evangelica prende volto e corpo nella nostra vita di fraternità. Una povertà non ricercata per se stessa (non fine a se stessa), ma incarnazione e segno del cambiamento dello spirito.

Dice Gesù: «Beati i poveri secondo lo Spirito…».

Chi è il povero secondo lo Spirito? Non immediatamente il povero secondo il fisco. Il messaggio evangelico ha certamente un’enorme valenza sociale, ma prima di tutto è un messaggio religioso diretto ai discepoli di Cristo, affinché lo accolgano nella fede. Cristo vuole credenti, non sindacalisti (se proprio si vuole: ha bisogno di credenti che sappiano fare i sindacalisti!). Il credente che pone in lui la sua fiducia e lo imita, ha comunque un’influenza nel sociale.

E allora, chi è il povero secondo lo Spirito?

Anzitutto, è Cristo stesso. È povero perché Figlio: la povertà è la condizione umana che si è scelto per essere tutto del Padre, totalmente dedito al suo servizio, e dunque per vivere da Figlio nella nostra umanità e per essere radicalmente figlio dell’uomo nella sua divinità. È povero, perciò vive da esiliato in noi, non s’impone, attende che lo riconosciamo e gli doniamo noi stessi.

E povero secondo lo Spirito è anche l’uomo che pone la propria fiducia nel Figlio di Dio, gli dona l’anima perché diventi la sua dimora, perché sia allacciata nell’abisso della comunione d’amore che lo unisce al Padre. L’uomo, credente in Dio e discepolo di Cristo, realmente non è proprietario di nulla («Nihil habentes, sed omnia possidentes»): né del suo Dio, né della verità, né delle creature e neppure di se stesso. Non è che un posseduto. Perciò, appartenendo al Tutto, possiede tutto

L’insegnamento evangelico sulla povertà è un chiaro invito a passare dalla povertà materiale (subita e fonte d’angoscia) alla povertà secondo lo spirito (scelta e fonte di beatitudine). Al di là di ogni retorica sulla povertà, essere poveri, infatti, non è di per sé uno stato privilegiato. La povertà è un male: quando spinge alla durezza, all’egoismo, alla violenza… Ma potrebbe anche essere un bene: quando, ad esempio, la si sceglie per essere più disponibili a seguire Cristo, a condividere la condizione concreta dei poveri, per non fargli pesare il loro stato o anche l’aiuto che si vuol porgere. La povertà scelta per un concreto e vero servizio è sicuramente un bene. Così, anche la ricchezza può essere un male: quando cattura, lega a sé rendendo schiavi delle sue leggi, delle sue esigenze, della sua logica di sfruttamento, di egoismo e di violenza. Ma potrebbe anche essere un bene: quando viene finalizzata al servizio del Regno. Un saggio amministratore utilizza tutto per il suo padrone, secondo quanto da lui ricevuto; ma a lui di tutto rende conto e tutto restituisce.

Chi è dunque il ricco, al quale Cristo indirizza i suoi «guai!»? È il fariseo della parabola il quale, vantando le proprie virtù e i propri meriti di fronte a Dio, sembra dire: «Io non ho bisogno di salvezza, non ho bisogno di te Dio. Tu vai per la tua strada, che io vado per la mia. Io basto a me stesso».

Chi è dunque il povero secondo lo Spirito, che Cristo chiama «beato»? È colui che, imitando il pubblicano, riconosce che non può contare su di sé per ottenere la misericordia di Dio,  perciò nella sua povertà gli si affida pregando: «O Dio abbi pietà di me, peccatore». Cristo è molto chiaro: colui che vive distaccato da sé, capace anche di vivere una povertà concreta, perché segno della libertà del suo spirito, sa confidare solo in Dio e perciò diventa beato. Poveri sono, dunque, gli umili che confidano solo in Dio.

 

Tenendo lo sguardo anche sulle altre beatitudini, è possibile ampliare il significato di questa indicazione evangelica. Povero:

 

-     È colui che prende coscienza con gioia e gratitudine che tutto è grazia, e che, di conseguenza, non ha la necessità di «comprare» Dio con le sue azioni…

-     È colui che piange il proprio peccato e il male dell’umanità.

-     È colui che ama che sia Dio a renderlo giusto.

-     È colui che sa perdonare settanta volte sette.

-     È colui che si mantiene limpido nelle sue intenzioni.

-     È colui che costruisce la convivenza umana sulla pace, sulla giustizia, sulla fraternità, rinunciando alla presa violenta sul fratello.

-     È colui che accetta umilmente anche la persecuzione, senza per questo giocare al martire, poiché non appartiene a sé ma a Cristo.

-     È colui che sceglie una vita sobria, mantiene un giusto rapporto con le creature, anzi si fa servo di ogni creatura per amore di Dio, e passa da questo mondo quasi «rubando di sotterfugio» il necessario per vivere, ciò che il mondo considererebbe invece come sua proprietà intoccabile…

-     È colui che, amando tutti, accoglie ognuno con cordialità e cortesia, e canta le lodi di Dio.

 

Questo povero secondo lo Spirito, anche senza saperlo, cammina con Cristo nel cuore e fa la consolante scoperta d’essere nel cuore di Cristo.

 

 

 

2. Beati gli afflitti

 

Una forma di povertà è anche l’afflizione. «Beati gli afflitti», dice Gesù. Chi sono «gli afflitti»? I piagnoni, i tristi, i depressi, coloro che camminano con il sole perennemente oscurato? Non credo. Non a costoro Gesù dice: «beati!», ma a coloro che si affidano a lui, perché hanno coscienza del peccato e del male che hanno in se stessi e che c’è nel mondo, se ne dispiacciono e fanno passi concreti per convertirsi. Non c’è infatti conversione senza il previo riconoscimento e rifiuto del peccato, che rende schiavi e rovina ogni rapporto umano.

Questo è l’atteggiamento del pubblicano, del povero secondo lo spirito, che riconosce e si affligge della propria situazione negativa e si affida al Padre per poter uscirne.

L’afflitto delle beatitudini è poi colui che, verso il prossimo schiavo del peccato, usa la carità della preghiera e dell’esortazione per aiutarlo ad uscire dalla situazione in cui si dibatte, pur conservandosi immune dalla pretesa di volerlo salvare anche contro la sua volontà (come tante volte gli uomini pii vorrebbero!). Solo Dio salva, ed è tenacemente rispettoso della libertà, pur fragile e malata, della sua creatura, anche quando tutti noi vorremmo che intervenisse con forza.

Gli afflitti sono beati perché hanno la gioia di vedere che l’amore di Dio vince il male, comunque.

 

3. Beati i miti

 

Un’altra forma di povertà dello spirito è la mitezza. I miti sono accoglienti, accettano gli altri per quel che sono, e trattano tutti  con cordialità e cortesia.

Sono coloro che si fanno servi di ogni creatura, non volendo neppure che gli altri siano cristiani migliori.

Costoro erediteranno la terra, quella terra di cui i violenti e gli sfruttatori vorrebbero impadronirsi con la forza, e che credono di possedere perché possono esibire documenti di proprietà o le armi per difenderla.

I miti vivono nel rispetto degli uomini e di tutte le creature, e si prendono cura delle ferite inferte dall’uomo ai suoi simili e alla natura, le quali, a loro volta, sono causa di reazioni di rabbia e di sempre nuove ingiustizie, guerre, sfruttamento… in una reazione a catena che sembra di non aver fine

Solo nel rispetto ci conquistiamo il diritto di abitare per sempre nella nostra «casa comune».

 

4. Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia

 

Chi più del povero ha fame e sete di giustizia, dal momento che difficilmente si trova chi voglia prendere le sue difese?

La giustizia. Siamo molto sensibili su questo argomento. Secondo il senso comune, giustizia significa «dare a ciascuno il suo» (giustizia distributiva, retributiva, contributiva…). E si è giusti quando nell’azione si rispetta la legge e la verità. Forse che la beatitudine evangelica mira a farci divenire buoni amministratori, solidi sindacalisti?… Non è questo il suo fine.

Il senso della beatitudine va in un’altra direzione, e suona: «Beati quelli che desiderano ardentemente la volontà di Dio». Sì, quella del Padre nostro, perché in senso evangelico la giustizia di Dio è la sua santa volontà. Beato è chi dona a Dio il primato nella propria vita, si comporta come lui e come il Figlio suo, amando e perdonando oltre ogni umano limite. Esserne saziati, equivale ad essere resi giusti (salvati) da Dio e, di conseguenza, ad essere in pace con lui e pronti a collaborare con la sua grazia, secondo la sua volontà.

Perciò, la giustizia che rende beati non può essere la sola nostra giustizia «umana», per la quale diamo a ciascuno il suo secondo i nostri criteri e le nostre misure (sovente adattare ai nostri interessi), ma la giustizia con la quale Dio ci fa giusti ai suoi occhi, cioè perdonati e in cammino di conversione e di santità.

Questo insegnamento deriva direttamente da Gesù. Egli venne per «fare la giustizia», cioè per restituire al Padre il suo posto nel nostro cuore, e l’unico diritto che sentiva era quello di compiere questa volontà del Padre sino all’ultimo. Per questo ha accolto gli impedimenti, gli ostacoli alla missione e, perfino, gli attentati alla sua stessa vita come prove (tentazioni) da vincere per rimanere fedele alla missione di riconciliarci col Padre. L’amore al Padre e il bene nostro sono stati per lui ben più importanti di ogni altra considerazione.

La sua missione si è snodata su due direttrici: la «giustizia» di Dio e la speranza delle genti.

 

-     La «giustizia» di Dio: Dio deve essere da tutti riconosciuto Padre di misericordia, lento all’ira e grande nell’amore; come Padre suo e Padre nostro. Manifesta questa verità vivendo da Figlio. Attraverso questa via, Cristo rimette Dio al suo posto nella nostra vita. Gli rende, cioè, «giustizia». E così, attraverso lui, Dio ritorna ad essere Padre per tutti i suoi figli.

-     La «speranza delle genti», cioè la salvezza, è la grazia di poter riprendere il dialogo interrotto nell’eden. In Cristo, l’uomo può nuovamente riconoscersi figlio di Dio e fratello di tutti gli altri suoi simili. All’uomo è restituita la sua vera identità, che è quella d’essere uomo. Ne segue che, per «diventare qualcuno», l’uomo non dovrà più «diventare Dio»…

 

Cristo ci dona l’esempio. Egli, come Figlio, compie la volontà del Padre e ci salva a costo anche della morte più crudele. Anche noi compiamo la volontà del Padre, quando ci lasciamo salvare, quando invochiamo la grazia che ci rende giusti e quando viviamo nella luce e nella forza di questa grazia di carità. In questo modo la volontà di Dio diventa la nostra volontà e noi, agendo nella libertà e facendo la nostra volontà come uomini responsabili, siamo in sintonia con il buon volere di Dio.

Noi chiediamo di avere, come Cristo, fame e sete di questa giustizia attraverso la preghiera che egli stesso ci ha consegnato. «Sia fatta la tua volontà: compi in noi il bene che vuoi per noi, e facci tuoi collaboratori a volere il bene per noi e per i nostri fratelli». Perché in effetti la volontà di Dio è il suo bene di salvezza: egli vuole che tutti gli uomini siano suoi figli ed opera affinché il suo volere si compia nelle nostre vite personali e nella nostra storia.

Cercare la giustizia di Dio come l’assetato cerca la sorgente, significa mettersi nella condizione di essere dissetati.

 

5. Beati i misericordiosi

 

Chi sa veramente rinunciare alle proprie rivendicazioni per amore del fratello, se non chi si fa povero di diritti, povero di potere e di violenza? Chi, se non il misericordioso?

Misericordioso è colui che rinuncia alla presa violenta su uomini e cose, colui che sa perdonare. Costui troverà misericordia, perché sarà misurato con il metro che egli stesso avrà usato.

In questa beatitudine è condensata tutta la parabola del servo spietato e la preghiera del Padre nostro.

Se noi siamo misericordiosi, proprio nel nostro atto di misericordia la misericordia di Dio ci raggiunge. Occorre però un po’ d’attenzione: non è che tu fai l’atto di misericordia e dopo Dio, in considerazione della tua bontà, è misericordioso verso di te. Questo è vero solo in parte, o in superficie, perché la misericordia di Dio precede e accompagna il tuo atto. E dunque: Dio ti precede col suo perdono (è lui che ha l’iniziativa); tu imiti Dio nel perdono verso il fratello. Proprio nel momento in cui eserciti la misericordia verso il fratello, la misericordia di Dio diventa vera in te, poiché ti ha cambiato.

Ciò è comprensibile se pensiamo che la grazia di Dio non rimane al di sopra o fuori di noi, poiché ci lascerebbe peccatori. Invece ci permea lo spirito, ci cambia, facendoci giusti, uomini che vivono nella giustizia di Dio. Così pure è della misericordia che ci ha raggiunto. Se la riversiamo anche sui fratelli, nel momento in cui usiamo misericordia ci fa misericordiosi, cioè cambia il nostro cuore e la nostra vita. Siamo nella logica del dono. Ogni dono ricevuto da Dio deve conservare la sua qualifica di «dono per me» e di «dono per gli altri». Ricordiamo la beatitudine dei miti: se tu ti impossessi della terra, che è dono di Dio per far crescere la nostra umanità, la perdi; ma se ne condividi i beni con i fratelli, specialmente i poveri, tu la erediti per la vita eterna.

 

6. Beati i puri di cuore

 

Che c’entra la purezza di cuore con la povertà? C’entra, eccome!, dal momento che essa è lo sguardo del povero secondo lo Spirito, di colui che si è liberato dalla malizia, dalla gelosia, dall’invidia, dalla doppiezza; di colui che vuole vedere nel fratello soltanto il bene….

I puri di cuore sono coloro che coltivano, nel loro essere e nel loro operare, un’intenzione retta, una trasparenza interiore, coloro che rifiutano ogni forma di fariseismo. Questa beatitudine, infatti, potrebbe essere letta anche come la negazione più forte dell’ipocrisia (cf. Mt 23, 1-36).

Chi erano i «farisei» di cui Gesù ha fustigato l’ipocrisia? Coloro che pensavano che per essere veri adoratori di Dio fosse sufficiente osservare puntigliosamente le leggi e rendergli un culto rituale. Facevano derivare la propria salvezza dal numero e dalla correttezza formale delle proprie azioni. Erano convinti di compiere, in questo modo, il proprio dovere. Non avevano il senso dell’interiorità, della presenza di Dio in sé e nei propri simili.

Oltre all’errore radicale di prospettiva in cui viene valutata la salvezza, questa visione comporta un rischio fortissimo: di fronte all’oggettiva incapacità umana di essere moralmente perfetti, necessariamente comincia ad emerge la paura, si verifica la perdita speranza, ci si chiude nell’attesa di punizioni e si sprofonda verso il fallimento stesso del nostro essere umano. Quando all’uomo cadono le braccia, facilmente si rifugia nella logica del servo della parabola, che va a sotterrare il suo talento… Effettivamente diventa «ipocriti», poiché non gli resta altra soluzione che mascherare questa tragica situazione spirituale.

Gesù proclama la beatitudine di coloro che sono trasparenti e genuini, di coloro non cedono alla tentazione di costruirsi delle maschere per coprire il vuoto spirituale. Costoro sono beati, poiché il loro sguardo riflette ciò che portano nel cuore: non il proprio «io» in autoadorazione, ma l’attenzione verso l’«altro»; sono beati, poiché hanno lo sguardo del buon samaritano [cf. Nessuno sia lontano,  pp. 50-54].

Di conseguenza, dobbiamo anzitutto toglierci la maschera. Siamo infatti degli specialisti nel mascherarci e lo facciamo per paura del giudizio degli altri e per apparire migliori di ciò che siamo.

Conosciamo bene come siamo fatti e come ci rapportiamo agli altri; sappiamo bene d’essere velocissimi a giudicare. Perciò ci aspettiamo che anche gli altri facciano la stessa cosa nei nostri confronti. Di conseguenza corriamo ai ripari e ci costruiamo maschere.

Ciò dimostra che abbiamo la coscienza sporca e che giudichiamo gli altri per coprire ciò che noi siamo: ti giudico ladro, perché lo sono io; ti giudico bugiardo, perché lo sono io…

Ora, Gesù dice di non giudicare e di togliere la maschera. E lo dice non tanto per arrivare a quella schiettezza, che dice «pane al pane e vino al vino», ma perché desidera che noi siamo limpidi dentro e che in noi ci sia il sole, vuole guarirci e che la sua parola metta radici in noi. Vuole tutto ciò, affinché la giustizia che manifestiamo – dal momento che ci piace essere giusti e darlo a vedere – sia quella giustizia che lui stesso ha creato in noi.

Un aspetto di questa trasparenza è anche – per fare qualche esempio – quella di non crederci migliori dei nostri padri (cf. Mt 23,29-32). Troppe volte è accaduto, nella storia della chiesa, che uomini di chiesa abbiano fatto soffrire altri credenti: dall’inquisizione al modernismo, passando attraverso la storia delle nostre parrocchie, delle nostre comunità religiose… Siamo sempre pronti a giudicare e a condannare coloro che non la pensano come noi. Pronti però ad erigere loro monumenti, a farli cardinali e a pubblicare libri in memoria, allorché i tempi sono cambiati.

Invece di imparare a comportarsi con più rispetto verso i presenti, si preferisce farsi belli rivalutando i calpestati del passato, per poter tranquillamente continuare a calpestare i contemporanei.

Anche questo è ipocrisia, è inganno. Si piega tutto alla convenienza e ai propri interessi. Dio suscita sempre profeti nella sua chiesa. Che sia necessario il discernimento di fronte ad essi (perché non tutti, e specialmente coloro che definiscono se stessi come «profeti», in realtà lo sono), è cosa ovvia. Ma un vero discernimento esige che siano bandite le nostre visioni ristrette e i nostri criteri interessati. Occorre fidarsi più dello Spirito, il quale ci riporta alla Parola del Signore e alla sua croce, unico vero criterio per giudicare ogni cosa. E allora ascoltiamo la Parola e cambiamo il nostro cuore, cerchiamo d’essere trasparenti, come gli abitanti di Ninive alla predicazione del profeta Giona. Gesù condanna duramente, infatti, coloro che prima rendono il loro cuore come pietra di fronte alla sua Parola e poi si fanno belli, costruendo i monumenti ai profeti uccisi dai loro padri.

Beati i puri di cuore, coloro che hanno lo sguardo sincero di una coscienza retta, perché Dio li ammetterà alla sua presenza nella liturgia celeste.

 

7. Beati gli operatori di pace

 

Il povero secondo lo Spirito è anche un vero uomo di pace. E Gesù lo proclama beato.

Beati quelli che costruiscono una convivenza pacifica, giusta e fraterna, perché Dio li accoglierà come figli.

Qualche sottolineatura [per quel che segue, cf. C. Dallari, Nessuno sia lontano, pp. 12-13].

La pace è un atto, un’azione che esiste solo quando viene compiuta. È un’azione a dimensione personale, nel senso che è cosciente e liberamente voluta e attuata; e sociale, nel senso che accade solo quando compiamo umilmente i passi che portano a riallacciare i legami di comunione con i nostri fratelli. Solo se perdoniamo realizziamo il perdono; solo se stabiliamo nuovi patti di pace, mettiamo in atto la pacificazione e possiamo parlare di pace senza cadere nella facile retorica che così spesso avvolge questa parola; solo se apriamo il nostro cuore gli uni agli altri, disponibili all’ascolto, alla sincerità della comunicazione e al dialogo, facciamo sorgere e risplendere il sole della concordia. «L’essenza dell’atto sta nel suo compimento» (C. Bigi).

Inoltre, la pace è un atto che coinvolge concretamente la verità e l’autenticità delle nostre relazioni e, quindi, non può risolversi in un processo puramente interiore, in quel sentimento pacioso che tutto lascia inalterato, o in quell’atteggiamento «buonista» che non va al cuore del male, e rischia di provocare ingiustizie, violenze e fratture ancor più profonde. In esso è coinvolto tutto l’uomo, nella sua complessità di spirito, anima e corpo, con le sue facoltà, i sentimenti, i condizionamenti culturali, ambientali, ecc. È strettamente connesso alla libertà ed alla responsabilità, ed è soggetto alle leggi del tempo: alla gradualità, ai ritmi di maturazione e al ricominciare ogni giorno; e alle leggi della speranza: alla fiducia, alla fedeltà e alla capacità di rinnovamento.

Nella sua vita di credente, il cristiano si sente coinvolto per vocazione e con tutta la sua umanità storica, individuale e sociale, nel dinamismo della pacificazione con Dio, con i fratelli, con le creature ed anche con se stesso. Sente d’essere chiamato ad intessere relazioni positive con tutti, a migliorare o cambiare i rapporti deteriorati dall’odio, dalla violenza, dall’ingiustizia e dalle incomprensioni, e a recuperare quell’armonia con se stesso e con le creature, per la quale era stato creato. «Dio vide che ciò che aveva fatto era cosa molto buona»: l’intera creazione, e in essa ogni uomo, è stata impastata nella bontà di Dio; è forse possibile farne a meno?

La pace va di pari passo con la riconciliazione. È molto più dell’assenza della guerra, costruisce un mondo nuovo basato sul perdono e sul riconoscimento del bene presente in ogni uomo. Poiché, secondo la Parola, la pace è l’abbondanza dei beni di Dio nella terra degli uomini, come sarebbe possibile spalancare le nostre braccia e i nostri cuori per lasciarci sommergere dai beni di Dio, se non operiamo un cambiamento radicale nelle nostre persone e nei nostri modi di vivere e di relazionarci con gli altri uomini e con il mondo? Se non viviamo operativamente la riconciliazione con Dio e con i fratelli?

Alla base dell’ingiustizia, delle lacerazioni, della violenza tra gli uomini sta il peccato, il rifiuto dell’amore del Padre nostro, il risentimento contro il nostro creatore, avvertito come l’avversario, il rivale, colui che non ha alcun diritto su noi e verso il quale non abbiamo alcun dovere. [Cf. Nessuno sia lontano, pp. 50-54].

Ora, la prima conseguenza di questo risentimento - Caino insegna - è che noi scateniamo l’aggressività verso i nostri simili, ai quali neghiamo la dignità di figli di Dio e di fratelli nostri, di cui dobbiamo rispondere al creatore.

Per restituirci la capacità di trattare i nostri simili come figli dello stesso Padre celeste, Gesù recupera in noi il senso della paternità di Dio, insegnandoci a parole e a fatti che Dio è Padre suo e Padre nostro; un Padre che è l’essenza della misericordia e dell’amore; un Padre che rivendica il diritto di prendersi cura di noi e di chiederci conto del nostro fratello e della casa in cui abitiamo. Gesù si comporta da Figlio, e per questo può donarci il tesoro più grande che come tale possiede: lo Spirito.

Occorre, dunque, mettersi alla scuola della misericordia del Padre. Da lui impariamo a rinunciare a gestire l’altrui fragilità; a spezzare le catene delle reazioni negative; a spegnere l’altoparlante con cui magnifichiamo i difetti altrui; a non abbandonare il fratello solo col suo peso; a bussare alla sua porta per chiedergli perdono, se l’abbiamo offeso, o per offrire perdono, se vuole essere perdonato; a fare pulizia di ogni sentimento negativo o distruttivo delle relazioni umane…

 

8. Beati i perseguitati per la giustizia

 

Chi, più del povero di potere e di mezzi di difesa, è facile preda dei violenti del mondo? Chi, più del vero discepolo del Signore povero e crocifisso, può attendersi d’essere trattato come il maestro? Il discepolo partecipa del destino del maestro: se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi.…

Beati i perseguitati a motivo della nuova giustizia evangelica, perché Dio re giusto, li salverà. Questa «nuova» è la discriminante.

Chi è perseguitato per la giustizia, partecipa alla lotta di Cristo contro il male che domina il mondo, e quindi subirne i contraccolpi delle ribellioni e delle ritorsioni.

Chi si impegna a seguire la via di Dio, incontra nel proprio cammino difficoltà sempre nuove e sempre grandi. In un mondo dominato dall’egoismo e dalla ricerca del proprio interesse, chi annuncia l’amore, la povertà, la mitezza, la giustizia, la pace… sarà inevitabilmente perseguitato, come la storia della chiesa insegna, perché il peccato è profondamente radicato nel cuore dell’uomo. Ma Cristo ha promesso la sua vicinanza: chiede solo fiducia in lui. Dagli apostoli in poi, i martiri sono i testimoni credibili del fatto che il cristiano può affrontare la persecuzione con gioia, lieto di poter dare la propria vita per il Signore.

Un’ultima precisazione. Soltanto la persecuzione per la «nuova giustizia» rende beati, non quella che colpisce i cristiani arroccati nelle loro chiese trasformate in fortezze, in proprietà da difendere, in territori da recintare, in domini politici o di altro genere. In questi casi, l’opera buona la farebbero i persecutori!… Limiti umani dei cristiani, connivenze inconsapevoli, forse, ma reali con situazioni di ingiustizia e di potere, le paure e le esitazioni, i silenzi, le mancanze di coraggio… tutto questo insieme ha fatto rivoltare contro la chiesa persino uomini onesti e di buona volontà. Di tutto questo male la chiesa deve solo chiedere perdono, passo necessario per un’autentica conversione.

Su tutto questo un’alba nuova spunta all’orizzonte: l’alba delle beatitudini…

 

 

[Riguardo san Francesco, leggere Ammonizioni: FF 162-178]